L’Admiral era conosciuta come la più grande stazione di tutto il globo. Era situata oltre le vette dei monti più alti della Terra e la sua torre valicava le nuvole del cielo. Era divisa in due frazioni, l’Admiral: la Base, che fungeva da zona centrale e da fulcro per le operazioni e i contatti con il mondo esterno, e la Torre, che troneggiava alta ed imponente. Propria su di essa, uno sparuto gruppo di operatori aveva il compito di misurare le alterazioni metereologiche, i valori dell’ossigeno e i cambiamenti climatici di un mondo che, ormai da diversi anni, sembrava vicino alla sua estinzione.


Questo racconto prende inizio una sera di un giorno come tanti, quando gli addetti alla manutenzione dell’Admiral, alla Base, notarono qualcosa di strano…


«Anche oggi tutto bene, no?»
L’uomo, che indossava una maschera per respirare, parlò attraverso il ricetrasmettitore. «A noi sembra di sì», disse. «Ma è il terzo giorno di fila che i valori delle scorie termiche si aggirano a ridosso della soglia massima». Cercò di confrontare i dati, leggendoli attraverso il computer. «Non è rassicurante», ammise.
L’altro uomo, che era rimasto fuori dalla camera stagna, rispose: «Non vedo problemi. Fino a quando i valori resteranno nella norma non c’è nulla da riferire».
Ma l’altro non sembrò convinto. «Ma non abbiamo mai registrato questi dati per tre giorni consecutivi!»
«William!», vociò l’uomo. «Il nostro lavoro è semplice: sistemare un guasto, non giocare a fare gli scienziati», disse con severità. «Quello è compito di altri. Di certo, lo sapranno meglio di noi!»
E l’altro, mestamente, annuì.


Il compito degli scienziati era proprio come era stato detto a William. Alla Base venivano incanalate le notizie che giungevano dalla Torre; venivano studiate, messe a confronto con altri dati, con altre misurazioni, e solo alla fine sarebbero state tirate le somme: era un processo molto più lungo e complesso di quanto si potesse immaginare, ma era una misura indispensabile per contrastare i grandi cambiamenti che si stavano riversando sul pianeta.
La Torre dell’Admiral era stata costruita appositamente per pochi intimi, collaboratori che avrebbero lavorato assiduamente, insieme. In tutto, erano in sei.
C’era il dottor Jenner e il suo assistente, il più giovane della compagnia, Edward Smith. C’era la signorina Kehrer, la più decorata tra gli operatori, e con lei l’esperto De La Cruz; c’era anche Bruce Stevenson e, infine, il comandante della stazione, Galeus Brisbane.
Oramai, erano alla fine della loro permanenza. Sei mesi avevano detto al quartier generale e dopodiché sarebbero stati sostituiti. Era una misura efficiente per non distaccarli troppo dal mondo reale. La torre dell’Admiral, infatti, era completamente isolata dal resto della stazione e l’unico contatto fisico con la Base era un ascensore a camera stagna, le cui porte, però, erano state sigillate elettronicamente, perché nessuno avrebbe dovuto intaccare le operazioni della Torre fino alla fine dei sei mesi, fino all’arrivo dei sostituti.

Alla Base erano stati molto chiari su questo. “Serviva silenzio, nessuna contaminazione esterna poteva essere ammessa”, avevano spiegato; “Era fondamentale. Solo così il progetto avrebbe funzionato”. Questo, l’equipaggio della Torre lo sapeva bene. Erano stati molto coraggiosi… Per essere reclutati nell’Admiral bisognava rinunciare a molte cose: la propria vita sociale, innanzitutto, vedere la propria famiglia, crescere i propri figli, un po’ come gli astronauti; una scelta di sacrificio, indubbiamente.

Quella sera, Bruce e la signorina Kehrer erano in sala riunioni. Lei era il secondo in comando e il giovane Stevenson, poco più che un ragazzo, aveva maturato una certa simpatia nei suoi confronti.
«Mancano solo pochi giorni», disse la donna con un velo di amarezza.
«Non sei contenta? Presto torneremo a casa con un bel po’ di soldi in tasca e una buona reputazione». Lui accavallò le gambe, stravaccando sulla sedia. «Cosa ci può essere di meglio?»
Dina Kehrer piegò lo sguardo in terra.
Bruce tentò di incontrare i suoi occhi, ma invano. «Ho notato che c’è qualcosa che non va, ma credevo fossi abituata a stare in questi posti, dopotutto».
In effetti, la signorina Kehrer non era alla sua prima esperienza su una stazione del genere. Aveva ricoperto vari incarichi, fin da giovanissima, e da sempre era stata decorata con ottimi voti. Ma l’Admiral… c’era qualcosa che di strano su quella stazione. Dina lo sapeva, lo avvertiva in un certo senso. Ma non ne avuto di che parlarne con gli altri; a cosa sarebbe servito? Conoscendoli, l’avrebbero indicata come stanchezza, troppa lontananza dalla Terra, dal mondo reale. Ma non si trattava di questo. Lei lo sapeva bene. Ormai da tempo c’era qualcosa che la tormentava, qualcosa che non riusciva a capire.
«Sono solo stanca», ammise.
«Stanca», le fece eco Bruce. «È normale. Non abbiamo un vero giorno di tregua quassù». Prese un respiro profondo. «Sai, certe volte mi manca il vecchio lavoro. Non mi fraintendere, non che voglia tornaci, sia chiaro. Ora che siamo qui e che abbiamo dalla nostra la possibilità di ricoprire certi incarichi, però… non so… capisco quanto possa mancarti casa e finire il turno senza avere la possibilità di vedere tuo marito o tua figlia… dev’essere devastante»
«Non siamo sposati», disse Dina con freddezza.
Bruce strabuzzò gli occhi. «No… cioè, lo so, è solo che… mi sembrava più carino dire cosi, insomma». Tentò di nascondere l’imbarazzo, invano.
«No, scusami tu, mi dispiace», disse. «Mi dispiace averti risposto così, ma io…»
D’improvviso, una voce squillò imperiosa.
“Attenzione, tutto l’equipaggio è pregato di venire nel laboratorio, subito”.
Bruce e Dina si precipitarono fuori dalla sala riunioni, valicarono il corridoio, incontrando Vicente De La Cruz. Anche lui stava correndo nella loro direzione. «Cosa succede?»
«Non ne ho idea»
Si infilarono le tute isolanti e, uno ad uno, entrarono nella sala della decontaminazione. Poi, finalmente, arrivarono nel laboratorio.
C’era il dottor Jenner lì, insieme al suo assistente, fermo, immobile, seduto ad una scrivania. Aveva le mani tra i capelli, la sua fronte era corrugata, i suoi occhi fissi su dei fogli davanti a lui.
«Siete arrivati, alla buon’ora». Il comandante Galeus Brisbane era già lì. Dritto e fiero, indossava una tuta di colore rosso, diversa dagli altri membri della stazione, e fissava con severità i membri dell’equipaggio. Era lo sguardo spassionato di un uomo abituato a giudicare. Non era facile lavorare con Brisbane. Era già stato sull’Admiral, più volte di chiunque altro. Lui, dall’alto della sua esperienza, diceva sempre che bisognava restare concentrati, limitare al minimo gli sprechi, di qualunque tipo, e ora troneggiava sugli altri membri della stazione con severità.
«Cosa succede, dottore?». Dina fu la prima a parlare.
Il dottor Jenner sollevò il capo. Sembrava spaventato. «Ho… ho analizzato un campione molecolare di ossigeno poco fa», mormorò.
Gli altri ascoltarono, quieti.
«È strano… davvero strano», disse. «È la prima volta che succede»
«Avanti, dottore, la smetta di girarci intorno e glielo dica!», vociò il comandante.
«Dirci cosa? Che succede?»
Il dottor Jenner incontrò il loro sguardo, denso di apprensione. «Sembra che l’aria si sia… solidificata», disse solamente.
Gli altri non parvero aver capito bene.
«Che significa che si è solidificata?», domandò De LaCruz, protraendosi verso la scrivania.
«Significa questo». Il dottore prese la fialetta da un contenitore e gliela mostrò.
Tutti rimasero a bocca aperta.
«Non è possibile…»
«Qui dentro c’erano delle molecole di ossigeno, prese proprio poc’anzi dalla sonda alla base della stazione. Ora c’è soltanto questa materia grigia, questa specie di materiale che non ho mai visto prima, mai nemmeno toccato»
«L’ha già esaminato?», proruppe il comandante.
«No… lo tenevo da conto e aspettavo di saperne di più».
«Che dicono dai piani bassi?»
«Non hanno registrato nulla di anomalo, almeno per il momento»
Dina non sembrò capire bene. «Ma com’è possibile che l’aria si solidifichi? Secondo quale processo scientifico?»
«Non lo so, signorina Kehrer», continuò il dottore. «Questa è una delle cose che dobbiamo scoprire»
«Va bene, allora». Il comandante si rivolse a tutti i presenti. «Contatterò io stesso il quartier generale e vedremo di arrivare in capo a questa storia, nel frattempo, mi aspetto che ognuno di voi prosegua con i propri compiti. È di vitale importanza per questa stazione»
Tutti annuirono.
«Ora potete andare», comandò. E tutti si allontanarono, valicando nuovamente la sala di decontaminazione. «Anche tu, ragazzo», disse rivolgendosi al giovane Smith. Una volta rimasti soli, il comandante si rivolse direttamente al dottor Jenner. «Non crei allarmismi, dottore. Non sappiamo di quale strano fenomeno si tratti e finché non c’è qualcosa di concreto non occorre preoccupare il mio equipaggio»
«Con il dovuto rispetto, comandante, noi qui siamo gli unici sulla faccia della Terra a studiare questi particolari fenomeni. Una cosa così non si era mai vista! Capisce cosa intendo? Non è normale, non è… naturale»
«Capisco bene, dottore, e le ho già detto che mi occuperò io di sentire il quartier generale, lei si limiti al suo lavoro, studi queste molecole, questo cambiamento, ma non allarmi gli altri. Devono restare concentrati sul loro lavoro; e poi, manca poco tempo prima che tornino alle loro famiglie, devono essere fiduciosi!»
«Sì, signore», disse.


La giornata si concluse com’era iniziata. Tutti i membri dell’equipaggio tornarono alle loro brandine; tutti tranne il comandante, ovviamente, che aveva la sua cabina personale, e il dottor Jenner. Il dottor Jenner non riusciva a darsi pace. Certo, era d’accordo con Brisbane di non allarmare gli altri, ma non poteva… non poteva aspettare, non riusciva nemmeno a dormire. Allora prese la fialetta incriminata, la osservò sotto il microscopio, la passo sotto i raggi X, tentò di capire in ogni modo quale straordinario processo avesse portato l’ossigeno a solidificarsi. Poteva essere pericoloso… Non riuscendo a venirne a capo, si tuffò sulla sedia, allargò le braccia e sospirò. “Cosa ne sarà di noi?”. Quelli furono i suoi unici pensieri.
L’indomani sembrò una bella giornata. Le nuvole correvano sotto la piattaforma della stazione, accalcandosi le une sopra le altre, minacciando e gravando sulla Terra con lampi e tuoni. Ma lassù… lassù non pioveva mai. Avevano delle scorte d’acqua nei magazzini della Torre. Erano molte, certo, ed erano state razionate fin dal primo giorno.
«Sì, dai, sono abbastanza»
«Mancano solo tre giorni… tre giorni e ce ne torneremo a casa!». Vicente De La Cruz sembrava euforico; meno di 72 ore e avrebbe potuto riabbracciare i suoi figli.
«Sì, non vedo l’ora anch’io», concordò Bruce, che era lì con lui, intento a contare le restanti scorte di acqua e viveri. «E quella faccenda del dottore?»
De La Cruz si voltò verso il suo compagno. «Parli dell’aria?»
Quello annuì.
«Abbiamo quasi finito il nostro lavoro qui», constatò. «Se ne occuperanno i prossimi. A quanto ho saputo, Jenner e il comandante resteranno anche per i prossimi mesi»
«Resteranno?». Bruce parve sorpreso.
«Così avevo capito», ammise, passandosi una mano sul mento, carezzando la barba scura e irsuta. «Poveri loro, probabilmente non hanno nessuno ad attenderli là sotto…»
“Già, potrebbe essere così”, pensò Bruce, tornando a lavoro. “Ma mi sembra strano, nessuno resta per così tanto quassù; e, poi, il comandante è già la seconda volta che rimane…”
«Ma tu non preoccuparti, avremo anche noi altro a cui pensare. Nessuno resta disoccupato dopo un’esperienza simile».
«No, ma…». Un brivido gli corse lungo la schiena. Si fermò e disse solamente: «Qui c’è qualcosa di strano, però»
Per la seconda volta, De La Cruz si voltò verso il compagno, perplesso. «Cosa c’è?»
Quello controllò per un istante gli ultimi dati, aggiornati alla settimana precedente, e poi, dopo qualche secondo di indecisione, sollevò il capo.
«Quindi?»
Bruce aveva il viso aggrottato. Le labbra, increspate, sembravano ritrarsi verso l’interno e i suoi occhi si persero sul volto del compagno.
«Parla, che succede?»
«I conti non tornano. Avevamo ancora dieci litri d’acqua e quattro scatole di viveri», disse.
«Ma qui ne mancano la metà…»
De La Cruz arcuò un sopracciglio. «Cosa dici?! E le altre?»
Bruce scosse il capo.
De La Cruz andò a controllare lui stesso; poi, si rivolse al compagno. «Forse è un errore?»
«Impossibile!», s’affrettò a rispondere Bruce. «Mi sono sempre occupato io del controllo delle provviste e non c’è mai stato un errore, i dati non mentono»
De La Cruz ci ragionò su. «Davvero strano…»
«Erano razionate, non è possibile un errore», replicò.
Si fissarono.
«Ma basteranno?»
Bruce tergiversò per un momento. «Sì, certo», disse infine. «Sì, basteranno»


Il comandante Brisbane era nella sala di controllo della stazione. Da lì partivano tutte le comunicazioni verso la Terra, verso la Base dell’Admiral, verso il quartier generale. Fece quanto aveva promesso al dottore e digitò il codice d’emergenza. Non avrebbe dovuto farlo, a meno che non ce ne fosse stato realmente bisogno. Ma doveva; anche lui, che era rimasto sicuro di sé, dando prova di fermezza di fronte ai suoi subalterni, doveva capire cosa stesse succedendo. Allora rimase in contatto con la stazione ed attese. Attese che qualcuno rispondesse. Passarono diversi istanti ma nessuno fece capolino dall’altro lato dell’apparecchio. E Brisbane rimase immobile, impassibile, ancora in quieto silenzio. Poi, d’improvviso, un rumore metallico gracchiò. «Stazione Admiral, qui è la Torre», disse.
Silenzio
«Ripeto, stazione Admiral, qui è la Torre!»
«… Admiral, sì, vi riceviamo, cosa succede? Perché state rompendo l’isolamento?»
Il comandante rispose: «Il nostro dottore ha fatto una scoperta a dir poco sorprendete, Base, chiediamo di inoltrare i dati per l’analisi»
Ci fu ancora un attimo di silenzio. Poi, la voce riprese a parlare. «Vi mancano pochi giorni alla fine del contratto, qui abbiamo grossi problemi da risolvere», disse.
“Che problemi?”
«Se la situazione non è impellente potete aspettare»
«No, non possiamo!». Galeus Brisbane sapeva come farsi rispettare. «Il protocollo è questo, il codice è giallo!»
Dall’altro capo dell’apparecchio si udirono altre voci indistinte, suoni che rumoreggiavano confusamente. Poi, dopo pochi secondi, ogni suono si acquietò. «D’accordo, allora, mandateci il vostro campione, lo analizzeremo e vi faremo sapere», disse. «Qui Base, chiudo»
La trasmissione si interruppe bruscamente.
Galeus Brisbane si lasciò ciondolare sulla sedia, fermandosi a riflettere. C’era qualcosa di strano, pensò; qualcosa di molto strano…


La signorina Kehrer era a lavoro con il giovane Smith, il collega del dottor Jenner. Erano nella sala di controllo metereologica, a pochi passi dal laboratorio. Quella mattina era una giornata perfetta per raccogliere campioni sui gas delle nubi. D’altronde, erano in una stagione in cui le piogge non erano più così frequenti e non sarebbe stato saggio lasciarsi sfuggire un’occasione del genere. A quella sommità, per uscire sulla terrazza serviva indossare una tuta isolante, legata all’interno della stazione con dispensa di ossigeno. Era Dina la prescelta per quel giorno, ma, a lei, quel compito non piaceva. L’aveva già fatto una prima volta, in realtà, proprio all’inizio del suo arrivo sulla Torre, ma da allora aveva sempre preferito che fossero altri a cimentarsi, il buon De La Cruz o il coraggioso Bruce, per esempio. Ma ora era con il giovane Smith e lui non aveva né l’età né l’esperienza per una cosa del genere. Egli rimase dentro la stazione, a controllare che tutto andasse bene, che la sua tuta venisse correttamente alimentata dall’ossigeno, che i dati sull’antenna parabolica venissero registrati adeguatamente. Proprio questo era il loro compito. La signorina Kehrer uscì sulla terrazza, avanzò, guardinga, verso l’antenna, e sistemò il raggio di trazione verso le nuvole; così, nel giro di poche ore avrebbero incanalato ogni possibile variazione metereologica e l’avrebbero sottoposta al dottor Jenner, il quale, poi, avrebbe spiegato loro cosa stesse accadendo o semplicemente gli avrebbe detto che tutto era nella norma. Quei dati, alla fine, sarebbero stati inviati al quartier generale, insieme a tutti gli altri, per creare una sorta di resoconto finale, una volta terminati i sei mesi di lavoro.
«Tutto bene? Ce l’hai fatta?». La voce di Edward Smith echeggiò dalla ricetrasmittente.
«Sì, per ora sì»
Il vento urlava, micidiale e lanciava raffiche paurose contro i vetri della terrazza.
«Ti arrivano i dati dall’antenna?»
«No, sembra di no», disse dopo un attimo di esitazione. «Ci dev’essere un problema con la parabola»
Dina allora prese forza e si sporse ancora di più verso il raggio. Fece attenzione a poggiarsi sulla ringhiera, senza gettare uno sguardo oltre il balcone, oltre il vuoto infinito che si apriva sotto i suoi piedi.
«Dina!»
Lei non rispose.
«Dina è meglio se rientri, il vento sta aumentando di intensità!».
Ma, di nuovo, ella rimase in silenzio.
Allora, Edward Smith tentò di dare un’occhiata attraverso i vetri della stazione: lei era lì, in punta di piedi, tentava di sistemare l’antenna, quasi volesse arrampicarcisi sopra. «Dina!», gridò. «Non serve fare eroismi, rientra subito!».
Ma per la terza volta non ci fu risposta.
«Dina, maledizione!». E allora la vide slanciarsi oltre l’antenna, la vide muoversi con imprudenza; forse troppa imprudenza. Perse l’equilibrio e scivolò all’indietro, la tuta si squarciò di striscio e Dina ruzzolò sulla ringhiera sbattendo la testa sull’antenna. «No, Dina!». Per un istante rimase immobile ed Edward attese, ancora per qualche secondo. Poi, balzò fuori dalla stanza, corse rapidamente verso l’interno della stazione, gridando a squarciagola, chiedendo aiuto. Ma una volta raggiunto il salone centrale, le porte della camera stagna che collegavano la Torre alla Base si aprirono di scatto. Un uomo cadde in terra e annaspò; sembrava stremato, le guance paonazze. Edward Smith trasecolò. “Ma che?!”. Non riuscì a capire; quelle porte dovevano restare chiuse, sempre, qualunque cosa accadesse. Ma allora, come aveva fatto quel tipo a salire? Chi era e che cosa voleva?

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