Terzo whiskey del pomeriggio e terzo whiskey annacquato: che l’inferno sarebbe stata cosa dura se lo era immaginato, ma di certo non fino a quel punto. Il sole comincia a calare lentamente, e l’inclinazione morente dei suoi raggi lo pone in quell’imbarazzo tipico di chi sa che è giunta l’ora di togliersi gli occhiali, ma nonostante ciò si ostina a fissare il volto del tramonto, fino a quell’istante in cui si vedono sparire i suoi occhi fiammeggianti al di là della linea dell’orizzonte: in fin dei conti, vedere ancora una volta uno sguardo che muore è uno spettacolo non da poco per chi si ritrova seduto su uno dei tanti tavolini all’aperto del Paradiso Perduto, e  converrete con noi che se tale epifania si ripete ogni sera, sarebbe un chiaro atto di scortesia nei confronti del destino il non riunirsi puntualmente in contemplazione di fronte a tale miracolo.

Nel dubbio, assorto tra tali pensieri, De André si accende una sigaretta: distratto dalla profondità della prima boccata, non si accorge che nel frattempo il suo amico Buñuel si è già accomodato sulla sedia lasciata accanto al suo tavolino, e che in attesa della sua cerveza ghiacciata si è silenziosamente rinchiuso nella lettura delle ultime notizie dell’Aldiquà.

«Ricordi quel mio vecchio film, “L’angelo sterminatore”?», esordisce dal nulla Buñuel, infrangendo il silenzio profondo che avvolgeva la coppia nonostante gli schiamazzi del locale: De André, intorpidito dalla piacevolezza della nicotina, annuisce lentamente, fissando distrattamente il fondo del suo bicchiere.

«Volevo solo raccontare il naufragio della società borghese, volevo prenderli e farli a pezzi, uno dopo l’altro. Volevo metterli in ridicolo, volevo prendere i loro modi e metterli di fronte ad una prova che non potevano sostenere, volevo che mostrassero tutta la loro elegante vacuità di fronte al limite dell’esperienza umana. Ho voluto chiuderli in una stanza e godermi lo spettacolo, metterli nell’impossibilità di abbandonare quella bolla di sapone e di tornare alla loro menzogna ovattata, la deriva di un’idea di vivere che colasse lentamente a picco nelle acque scure e profonde della realtà. Ed è stato maledettamente divertente. Ma ciò che leggo ora non è più surrealismo, è realtà pura e genuina come il vino che bagnava le nostre vene nelle calde serate estive: il gioco che ho inventato si è trasformato in un incubo, un incubo dove quelle acque profonde e scure hanno finito per inghiottire non più la caricatura di una borghesia merlettata e statica, ma la carne viva e pulsante di una società che ha perso la voglia di vivere le proprie giornate: e non è più il capriccio divertito di un’artista a dettare il ritmo di tale novella, ma è la volontà dello stesso uomo a volersi sottrarre al gioco, a rinchiuderlo volontariamente in una gabbia di paura e di scialba indifferenza alla vita. E ora sono qui, con te, ad assistere a questo macabro spettacolo».

«Amico mio», dice finalmente un De André metafisico, avvolto ancora dalle ombre lunghe della sera imminente, «il contrappasso ha un senso dell’ironia talmente sottile e raffinato da poter essere concepito solo dalla vita stessa. Una volta scrissi di un giudice nano che era convinto che Dio in fondo non potesse essere poi così tanto alto di statura, e di ciò se ne compiaceva molto: ma temo, mio caro Luis, che sia rimasto molto deluso una volta arrivato qui, così come resti deluso tu di fronte al sovvertimento del tuo naufragio. Credevi di poter essere Dio in terra, a giudicare la borghesia e la vita, e invece sei finito qui spettatore del tuo stesso gioco, in cui però non sei più tu a dettare le regole. Ma beviamoci su mio caro: tanto abbiamo tutta l’eternità per pensare a come siamo stati presi per il culo.»

Nel frattempo, arriva la cerveza di Buñuel e il quarto whiskey di De André, e i due si lanciano un profondo sguardo d’intesa: non è luogo per i brindisi, il Paradiso Perduto, ma per l’amicizia c’è sempre tempo, e anche per una chiacchierata dietro un drink.

«Cazzo lo sapevo», dice Buñuel, «è un piscio come sempre.»

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