La Commissione Europea ha aperto una consultazione pubblica con lo scopo di influenzare la stesura del DSA (Digital Services Act), un pacchetto legislativo volto a modernizzare la struttura delle leggi regolatorie riguardanti il mercato digitale. Tra i vari studi e le varie opinioni inviate alla Commissione al fine di influire sul testo finale, non mancano proposte perplimenti.

Il DSA andrà a sopperire alle mancanze della direttiva sul commercio elettronico del 2000, laddove l’innovazione ed il continuo evolversi delle tecnologie informatiche hanno reso obsolete le precedenti azioni legali. Gli obbiettivi ufficiali enumerano la ricerca di soluzioni che mirano a promuovere la competitività, omogeneizzare le regole applicabili alle varie attività che offrono servizi nell’Unione Europea, più scelta e protezioni per i consumatori e per gli interessi delle varie nazioni dell’unione.

Un impresa ambiziosa di dimensioni ciclopiche che, seppur necessaria, come ogni iniziativa di tali proporzioni è vulnerabile all’introduzione di regolazioni restrittive con profonde ripercussioni per l’utilizzatore individuale; uno studio importante individua le implicazioni e gli sviluppi sul corto, medio e lungo termine del DSA ricorda come al fulcro del pacchetto risieda l’ideazione di un “cloud/rete/internet Europeo” che agirà esattamente, testuali parole, “come il Grande Firewall Cinese“.

Lo scopo di tale rete europea sarà, secondo quanto scritto, di proteggere gli interessi dell’unione, disegnati attorno all’applicazione e alla proiezione degli “ideali democratici” per far si che paesi terzi non influiscano maliziosamente sul mercato comunitario, in una rara proposta protezionista. Arriva però l’inghippo: non si può parlare di ideali democratici e menzionare, nella stessa frase, il Firewall cinese.

Il firewall cinese è un attrezzo tecnico con il quale il Partito Comunista Cinese controlla effettivamente l’opinione pubblica e l’opposizione al regime, donando al governo la quasi totalità del potere sull’informazione digitale. Sebbene intellettualmente sia possibile separare lo strumento dall’ideatore e la sua applicazione, tradurre il processo intellettuale di trasformazione in legge ed applicarlo alla società si è sempre rivelato un’impresa pericolosa. Non possiamo infatti segregare uno mezzo ideato per servire il suo creatore dagli scopi che il mezzo stesso è stato disegnato per raggiungere: possiamo separare l’arte dall’artista solo quando l’artista stesso non metta se stesso all’interno della sua arte.

Questo vuol dire che, seppur da un punto di vista puramente tecnico il Grande Firewall sia uno strumento dal potenziale quasi infinito, nella realtà applicativa non è possibile, con onestà, fare un’analisi che neghi che all’interno di un potenziale tanto esteso risiedano possibilità altrettanto estese di abuso.

Quello dei paragoni con la Cina è un problema che la pandemia COVID-19 ha portato alla ribalta in più e più occasioni. Non è raro udire personalità, dal politico alla persona comune, lodare la risposta del Partito Comunista al virus ignorando al contempo le implicazioni e le ragioni che hanno reso possibile tale risposta. Sembra quasi che ci sia un desiderio tanto forte per la soluzione da rendere ricettivi all’idea di una “dittatura transitoria” e pagarne il prezzo. Dalla dittatura però, a crisi finita, indietro non si torna.

Sembra calzante l’esempio del dictator della Roma antica: una figura nominata, non eletta, la cui unica funzione era quella di organizzare una reazione ad una profonda crisi portata da un nemico o altra minaccia allo status quo. Al dictator era affidata tutta l’autorità dello stato affinché adempisse allo scopo prefisso. Nonostante i dictator Romani fossero incredibilmente efficaci nel porre rimedio ai problemi emergenti, la Repubblica Romana morì proprio nel momento che il dictator per eccellenza, Giulio Cesare, decise di non abbandonare il potere affidatogli. Importante ricordare come, tra l’altro, Cesare fece un gran spettacolo del suo rifiuto di una corona offertagli da Marco Antonio, col beneplacito di parte del popolo. Marco Antonio oggi è forse intravedibile tra le parole degli elogiatori della risposta cinese.

La Commissione Europea invece, come Cesare, prima promette di utilizzare tale rete di ispirazione cinese come mezzo per garantire la democrazia, poi però propone, in un leak, anche regolazioni sulla crittografia per far si che gli enti politici abbiano sempre accesso a comunicazioni criptate tramite le cosiddette backdoor. Propone questo, inoltre, appena dopo aver scritto come la crittografia sia un “mezzo necessario alla protezione dei diritti fondamentali e sicurezza digitale di governi, industrie e società“.

Doppio standard che tradisce una certa arroganza nella certezza che il governo non possa mai utilizzare questi organi per fini autoritativi. Certezza che dovrebbe essere, in un sistema salutare, controbilanciata alla base tramite dialogo nella popolazione generale sulla fiducia da affidare alle autorità, dialogo che sembra ormai scomparso.

Il controllo più stretto, garantito dall’istituzione del “internet europeo” sposato alle nuove regole sulla crittografia e alla stesura di nuove regolazioni, sempre troppo vaghe, su “materiale terroristico” e incitamento all’odio, esteso con la sempre più crescente integrazione della politica di identità all’interno dei codici legali delle nazioni comunitarie, dipinge un futuro di morte effettiva del diritto all’informazione imparziale e alla divulgazione del pensiero.

Tra le soluzioni proposte per evitare che materiale terroristico, per esempio, venga postato su internet, spicca per improprietà e pericolosità il filtro di upload automatico che, essendo fondamentalmente incapace di riconoscere contesto e inflessione sociale, andrebbe a minacciare come effetto indesiderato anche il flusso di informazione propria e legale.

La scarsa determinazione con la quale materiali illegali vengono denominati tali si presta ad un ulteriore abuso, quello della innata flessibilità con la quale si possa definire e rimuovere informazione considerata scomoda da momento a momento, senza dei veri e propri sistemi per salvaguardare contro un potenziale uso illegittimo.

Torna quindi di prepotenza l’importanza del discorso sul bilancio tra libertà e sicurezza, forse abbandonato troppo prematuramente dopo la fine dell’apice della guerra al terrorismo; non è spesso però chiaro come mai l’una vada a discapito dell’altra.

La sicurezza offerta e mantenuta da un ente statale o sovrastatale trova la sua fonte nel potere legislativo e viene applicata tramite il potere esecutivo: può quindi interessare, per natura, solo la popolazione nella sua interezza. Il diritto e la libertà si posizionano al suo opposto in quanto proprietà emergenti dell’individuo. Lo Stato, comunitario, non può quindi essere la fonte del diritto e della libertà ma solo il loro garante.

Il ruolo dello Stato infatti, almeno sulla carta, è garantire che ci sia la quantità di sicurezza necessaria affinché, all’interno della comunità, gli individui possano esercitare le proprie libertà, senza imporne abbastanza da limitare queste ultime. La sovrapposizione di entità sovrastatali con potere decisionale però, portano il rischio di sbilanciare questo delicato equilibrio che fino ad ora ha miracolosamente funzionato.

Tutto ciò non garantisce ne vuole evidenziare un abuso inerente o intenzionale del sistema e delle varie proposte regolatorie, ma bisogna ricordare che perdendo l’abitudine di criticare, discutere e mettere in dubbio, in modo civile ed avendo le idee chiare, le intenzioni delle autorità, un eventuale abuso andrebbe a porto assolutamente inostacolato.

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