Pandemia: epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti.

È intorno a questa semplice parola che è iniziato tutto. Si dice che il primo lavoro non si scorda mai e credo che, nel mio caso, mai frase sia stata più corretta. Per me tutto è iniziato il 17 marzo, perché prima di quel momento non mi rendevo veramente conto della situazione. Preciso che non ero estranea a ciò che stava succedendo ma sapevo perfettamente, grazie o purtroppo ai milioni di notizie più o meno attendibili che ci bombardavano ogni giorno, della pandemia che mi circondava, delle morti di migliaia di persone e delle difficoltà del sistema sanitario. Come in tutte le situazioni però, fino a quando non ci sei in mezzo e le vivi da vicino, non capisci veramente.

Il mio passaggio dalla scuola alla realtà lavorativa è stato strano e “straordinario”: dopo sei anni di università, la laurea in medicina e tre mesi di tirocinio, avrei dovuto affrontare un test scritto per abilitarmi. Tutto questo si è interrotto con l’inizio dell’emergenza. Dopo un periodo di transizione, in cui noi laureati siamo vissuti nel limbo, è arrivato un decreto straordinario che mi ha permesso di abilitarmi e diventare a tutti gli effetti un dottore. Tutto questo ha consentito a me e ad altri giovani medici di scendere finalmente in campo per dare manforte a chi già da circa un mese stava dando il massimo contro il virus.

Per fortuna o sfortuna, dipende dai punti di vista, non è trascorso molto tempo dalla chiamata per entrare a fare parte delle cosiddette USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale.  Neanche io inizialmente sapevo esattamente cosa fossero e cosa dovessi fare. Mi spiegarono poi che le USCA sono unità nate per seguire sul territorio i pazienti COVID-19 o con sintomi sospetti tali, tramite visite al domicilio e contatti telefonici. Il medico di famiglia carica la scheda del paziente e noi andiamo a visitarlo e a valutarlo in modo da decidere se continuare a seguirlo in casa o se è necessario il trasporto in Pronto Soccorso: insomma, decisioni non proprio di poco conto. 

Nel mio gruppo siamo in sedici medici e sei infermieri, tutti con trascorsi diversi ed esperienze differenti, accomunati dalla voglia di aiutare nel momento di emergenza. Ciascuno da cui poter apprendere qualcosa e con il quale potersi confrontare. Grazie ai miei colleghi, un lavoro molto difficile e a volte sconfortante è diventato più leggero. Credo che non dimenticherò mai il mio ventiseiesimo compleanno festeggiato a lavoro, le battute e le chiacchiere tra una pausa e l’altra, gli scambi di opinioni e le riunioni poco proficue in videochiamata, con la nostra povera responsabile che cerca di mantenere un ordine nell’anarchia più totale.

Il primo giorno di lavoro, non mi vergogno ad ammetterlo, ero terrorizzata. Non tanto per la paura di ammalarmi, mi avevano insegnato tutti i passaggi per la vestizione e la svestizione da mettere in pratica prima e dopo ogni visita: tuta, poi calzari, sovracalzari, primo guanto, poi ancora camice, secondo guanto, cuffietta, filtrante facciale FFP2, mascherina chirurgica e infine la visiera, insomma una serie infinita di passaggi per essere pronti, come dice una mia collega, al “bagno nel COVID”. Essendo il mio primo lavoro ed essendo arrivata in piena emergenza, temevo più che altro di non essere all’altezza, di sbagliare credendo di fare il bene del paziente o semplicemente di non riuscire a essere un punto di riferimento e di conforto per i pazienti che avrei avuto in carico.

Perché una cosa accomuna tutte le persone che visito: la paura.

Quando entro nelle loro case, tutti per prima cosa vogliono essere rassicurati, ascoltare il famoso “tutto andrà bene”, hanno bisogno di sentirsi confortati dal punto di vista medico, ma soprattutto dal punto di vista umano. Allora visiti le persone il più accuratamente possibile, spieghi la situazione, stringi loro la mano e sorridi dietro la mascherina, sperando che riescano a percepire di non essere sole e che sentano meno il senso di abbandono. Non tutti i pazienti sono uguali, c’è la vecchina che ti offre con insistenza il caffè che tu per ovvi motivi rifiuti, ma che non se ne fa una ragione; c’è la figlia in apprensione per il padre che ti travolge di domande, mentre l’uomo continua a ripetere che sta bene, scatenando la sua ira; c’è il giovane che ti ripete che è impossibile abbia contratto il COVID perché “solo i vecchi si ammalano”; infine c’è la signora un po’ pazzerella che ti urla dalla porta che sei in ritardo di quindici minuti, pur non avendole dato un appuntamento preciso.

Insomma, premi il campanello e non sai mai cosa puoi trovare oltre la soglia. Hai però una certezza: qualsiasi cosa accada, hai cercato di fare del tuo meglio, perché in fondo tornano sempre alla mente queste parole:

“Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona”.

Autrice: Federica M.

Comments to: Frammenti di vita di un medico alle prime armi: come sopravvivere alla pandemia quando non sei un eroe

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