Perché è sbagliato condannare l’individualismo a prescindere e non cercare, di conseguenza, una terza via (veramente equilibrata).

Carlo Calenda, uomo politico che con rammarico ho sostenuto per un breve periodo, ha scritto un libro recentemente intitolato “La libertà che non libera”.

Purtroppo, o per fortuna, “La libertà che non libera” non è, a differenza de “I mostri” un libro “per tutti” ma un libro vittima di una serie di limiti che le personalità politiche come quelle di Carlo Calenda non riescono (e forse non vogliono) comprendere.

A prescindere, infatti, dal rispetto personale che provo per il dottor Calenda, uomo che ho conosciuto e che al netto del suo sostegno nei confronti del governo Draghi non posso condannare in termini assoluti, la tesi sostenuta nel pamphlet “La libertà che non libera” mi ha deluso non poco e ha contribuito di conseguenza ad accrescere in me la convinzione per cui la politica non goda di ottima salute…

Nella presentazione al libro, si ritiene che una certa predilezione per l’individuo abbia messo in crisi i valori dell’Occidente e che di conseguenza la perdita di ogni limite sia appunto un’inevitabile risposta alla carenza di valori etici dell’individualismo.

Secondo l’autore, infatti, “A partire dagli anni Ottanta l’unico perno della nostra civiltà è diventato l’individuo e la sua ricerca di illimitata libertà e di crescente appagamento materiale. Il Covid-19 e la guerra in Ucraina ci obbligano a un repentino cambiamento di prospettiva. Ma i segnali di fragilità etica dell’Occidente erano già visibili da molti anni: la confusione tra desideri e diritti; la politica ridotta a mutevole stile di consumo; la cancellazione della storia e dunque dell’identità; l’assenza di moderazione in tanti campi dell’agire pubblico e privato; il rifiuto dei valori della competenza, dell’autorità e dell’educazione formale; la difficoltà ad accettare le categorie morali di obbligo, dovere e gerarchia. Si è diffusa una cultura che nega il valore del limite. Abbiamo bisogno di ristabilire dei limiti, anche per essere felici come individui”.   

In linea di principio, l’individualismo ha, in effetti, spinto la nostra civiltà ai confini di qualcosa di estremamente pericoloso ma, sarebbe scorretto generalizzare anche in questo caso e imputare le carenze del nostro presente esclusivamente ad un singolo eccesso, appunto.

La verità, per quanto difficile possa essere da accettare, è che si, Carlo Calenda non sbaglia nel ricordare quanto siano importanti i limiti ma questi non sono riferimenti esclusivi nel campo dell’individualismo ma anche di chi vorrebbe costruire una società più vicina ai gruppi e alle comunità.

Le famiglie, le aziende, i partiti, i sindacati e le associazioni sono entità concrete che hanno un’identità definita e uno scopo evidente; tuttavia, le entità appena ricordate non sono entità astratte sono entità che hanno senso perché esistono degli individui all’interno e all’esterno.

Prediligere le caratteristiche e gli scopi delle aggregazioni sociali è importante ma dimenticare chi le compone rischia, nel medio e nel lungo termine, di compromettere le potenzialità e il diritto degli individui di esprimersi e si, di essere talvolta anche diversi.

La storia, dopotutto, non è esclusiva opera delle aggregazioni e delle società. La storia, al contrario, è più che volentieri il risultato del genio di un solo individuo che ha coraggiosamente negato e combattuto le regole dei contesti sociali in cui vivevano.

Certo, l’edonismo ha svuotato le coscienze individuali ma sarebbe un’imprecisione, anche in questo caso, dimenticare che l’edonismo non ha inizio negli anni Ottanta ma si manifesta in termini spiacevoli anche nel ’68, quando, non a caso, un’altra volta si è andati talvolta oltre…

Il tema, complesso e difficile da sviluppare in questa sede, ci vede tutti coinvolti e purtroppo ci mette nella condizione di riconoscere una cosa non scontata: una cattiva visione dell’individualismo ha scavato le nostre anime per renderci perfetti strumenti di consumo e di produzione.

Un essere umano che non pensa, anzi, non ragiona, non solo, effettivamente è un ottimo consumatore e un perfetto produttore ma anche un utile servo.

Di conseguenza, ad una degenerazione di un capitalismo sfrenato e orfano di un Umanesimo interessante, la politica ha risposto con regole assurde e contradditorie; regole che, come abbiamo osservato negli ultimi due anni, ci costringono spesso e volentieri ad un rispetto ossequioso e acritico di un’autorità scevra di autorevolezza (pena l’esclusione sociale e “la tempesta di merda” individuale).

La vera domanda, in conclusione, è, a mio avviso, la seguente: cosa resta del gruppo se l’individuo è vuoto?

Cosa resta del sano desiderio di autodeterminazione e contestazione quando la società si piega su sé stessa e giunge ad un punto di non ritorno a causa delle sue stesse contraddizioni?

I riferimenti alla Roma repubblicana di Carlo Calenda sono a dir poco interessanti ma al netto del ricordo dei cittadini virtuosi che hanno reso grandi le Istituzioni di Roma, ci si dimentica che a salvare lo stato non fu la corruzione ma un uomo, Giulio Cesare.

Oggi, potremmo tranquillamente (e volentieri) evitare una dittatura illuminata (soprattutto perché Mario Draghi non sarebbe capace di proporla) e potremmo farlo non solo perché la storia può esserci maestra ma soprattutto perché potremmo, in effetti, alla luce dei grandi esperimenti degli ultimi quarant’anni inventare una terza via tra individuo e collettività.

Non bastano i maestri per riscoprire il piacere della vita politica poiché serve una vita politica nuova! E per esperienza, posso garantirvi che una vita politica nuova non si costruisce continuando a prediligere l’apparenza alla sostanza…

Le soluzioni “moderate” di Carlo Calenda possono funzionare, in alcuni casi, ma pur essendo diverse da quella sinistra autoreferenziale che continua a prendere in giro milioni di persone, possono scadere nella trappola del “politicamente corretto”: se il limite, infatti, deve essere imposto dall’esterno come suggerisce l’autore di “La libertà che non libera” cosa c’è di diverso, pertanto, dal “politicamente corretto”?

Non buttiamo via tutto: farlo significherebbe prestare il fianco a quella tendenza nichilista che sta uccidendo le nostre ragioni…

Cerchiamo, piuttosto, di essere lucidi: stabilire un limite non è semplice ma perché ignorare il problema più evidente, cioè quello che vede la maggioranza delle persone come “teste vuote”? Perché, quindi, non ritornare ad un sano modello di educazione libertaria che sì, certo, predilige l’individuo, ma come parte di una comunità che non vincola e non necessariamente condanna il coraggio di dire talvolta “no”?

Comments to: “La libertà che non libera”: un libro incompleto

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