Si discute sempre più di informazioni vere e false, della potenzialità distruttiva delle fake news e della task force governativa sulla verità giornalistica. E’ arrivato il momento di provare ad analizzare cosa il giornalismo rappresenti oggi, nel 2020, nelle nostre vite.
“La gente penserà solo quello che voglio io” Charles Foster Kane, protagonista del film Quarto Potere di Orson Welles
Cosa sia il giornalismo è al contempo facile e difficile da dire. Come per Sant’Agostino quando gli chiesero di definire il tempo “si nemo ex me quaerit, scio: si quaerenti explicare velim, nescio” ossia: se nessuno me lo domanda lo so, se mi chiedono di spiegarlo non lo so più. Ad ogni modo volendoci provare possiamo sommariamente dire che esistono tre modi per fare giornalismo, e tutti e tre insieme fanno un buon giornale. (La tripartizione di seguito offerta sarà necessariamente parziale, si consideri che il Premio Pulitzer, massima onorificenza nel contesto giornalistico, si divide in ben quattordici categorie di giornalismo diverse!)
Il primo modo di fare giornalismo è la cronaca: ossia ci si occupa delle cosiddette “wh questions” (chi, cosa, dove, quando e perchè). Fondamentalmente per fare buona cronaca, ossia per descrivere oggettivamente un fatto, occorre essere semplicemente dei bravi scrittori. Il buon cronista necessita di avere uno stile limpido e chiaro, se possibile evocativo, ma non troppo. Dalle righe di testo devono emergere solo i fatti: l’autore non è altro che un filtro oggettivo tra essi e il lettore. Il cronista riceve la notizia e da quella deve saper ricavare un buon articolo che dia al lettore un senso di chiarezza ed immediatezza.
Il secondo modo di fare giornalismo è l’opinione. In tal caso occorre non solo avere uno stile di scrittura fluido e piacevole, ma occorre avere qualcosa in più. Nell’opinione si va oltre la narrazione di un fatto. Nel più delle volte il fatto lo si da già per acquisito e si procede ad esporre un ragionamento autorevole. Il ragionamento si può astrarre dal singolo fatto e può finire a toccare tematiche complesse come sociologia, filosofia o politica economica, oppure può gravitare intorno ad esperienze autobiografiche dell’autore. Per poter essere dunque opinionisti occorrono due elementi alternativi: o rivestire un particolare incarico in un particolare contesto (ed è ciò che è accaduto a moltissimi virologi in questo periodo) oppure avere una personalità nota e di spicco, possedere quindi un’autorevolezza che invogli il lettore a conoscere il proprio pensiero. Occorre in sostanza essere un intellettuale. E’ il caso di personaggi come Scalfari o Feltri che spesso si impegnano in riflessioni di questo tipo rispettivamente su Repubblica e Libero. Ad onor del vero occorre dire che il confine tra cronaca e opinione, anche se chiaro in teoria, in pratica a volte svanisce. E’ il caso di illustrissimi uomini di penna e d’avventura come Ernest Hemingway o Tiziano Terzani, che iniziarono a scrivere cronaca e si ritrovarono poi a scrivere opinione (si consigliano caldamente le raccolta di articoli “in Asia” di Tiziano Terzani, facilmente reperibile e il rarissimo e quasi introvabile “Dal nostro inviato Ernest Hemingway“).
Il terzo modo di fare giornalismo, ed è quello su cui vogliamo maggiormente concentrarci, è l’inchiesta. Il giornalista d’inchiesta è entrato nella mitologia collettiva grazie ad opere come “Il Caso Spotlight” nel cinema o come la trilogia “Millennium” di Stieg Larsson nella letteratura. Il giornalista d’inchesta non si limita a descrivere i fatti come il cronista, ne si limita a dare la sua lettura dei fatti come l’opinionista: il giornalista d’inchiesta scova i fatti. E in loro mancanza scova i dati e insegue i fatti. Il giornalista d’inchiesta sostanzialmente cerca la verità. Per arrivare alla verità pertanto non occorre avere solamente una buona penna o essere illustri intellettuali, ma occorre sporcarsi le mani con il lavoro investigativo. Hugo De Brugh, storico dei media definì questa figura come segue: “Un giornalista investigativo è un uomo o una donna la cui professione è di scoprire la verità e identificare gli scostamenti da essa in qualsiasi media possa essere disponibile“. Nel 2020 ad esempio ha vinto il Pulitzer per il giornalismo investigativo Brian M. Rosenthal del New York Times che ha svolto attente indagini sulle pratiche dubbie intorno al rilascio delle licenze per taxi a New York.
Per svolgere correttamente e con profitto le indagini giornalistiche vi sono molte strade da seguire: ci sono corsi accademici per la formazione specialistica, occorre spendere molto tempo nel fare pratica, esercitare molta pazienza nei tempi morti e occorre una discreta dose di creatività e intuito. Visto il delicatissimo lavoro che si cela dietro ogni inchiesta giornalistica è intuitivo che non ce ne può essere una nuova in ogni giornale ogni mattina. Ma non devono considerarsi nemmeno eventi rari, non si tratta di “avventure” casuali e occasionali ma di lavoro per i cittadini, da pianificare, condurre e portare al pubblico.
Ebbene nel nostro contesto odierno, con la società paralizzata dal Covid si vedono sempre meno inchieste. Sui giornali si leggono quotidianamente accuse pubbliche al governo o alle regioni, opinioni mediche sempre contrastanti dall’oggi al domani, dati allarmistici per lo più empirici, ma pochissime inchieste. Ad esempio sarebbe stata interessante un’inchiesta sul perchè la situazione sanitaria nazionale sia così in crisi, che poi è la vera ragione della criticità della situazione. Sarebbe stato interessante indagare sui nomi e circostanze che negli ultimi vent’anni hanno progressivamente impoverito l’offerta sanitaria pubblica. Sarebbe interessante studiare come le pratiche di intramoenia negli ospedali pubblici abbiano impattato sulla loro efficienza. Ma riflessioni di questo tipo non sono state offerte dai giornali mainstream che si sono trovati invischiati un un vortice di cronaca e opinione. Le poche analisi in tal senso sono state volutamente poste in secondo piano e allontanate dal vaglio dell’opinione pubblica. L’esempio più lampante sono i dati che la protezione civile forniva nel macabro rituale del bollettino delle 18. I dati assursero ad elemento oggettivo erga omnes, svincolato da qualunque indagine o controprova. Si poteva solo riportarli o al massimo commentarli. Indagarli meglio di no. Riflettere sull’effettivo conteggio dei morti era operazione che può portare al complottismo o peggio al negazionismo, a seconda di quanto si spinga a fondo.
In particolare dalla ricerca giornalistica sembrerebbe scomparso il ricorso al “metodo scientifico“. Detto sistema di studio ha radici antichissime ma fu sdoganato definitivamente da Galileo Galilei nel finire del 1500, e si basa sostanzialmente sull’osservazione di un fenomeno. Vediamone i passaggi essenziali: l’osservazione di qualcosa produce dei dati, sulla base di questi dati si formulano ipotesi e poi si cercano di provare le ipotesi in tutti i modi possibili. Ogni conferma dell’ipotesi è potenziale segnale della sua validità, ma basta una sola prova contraria all’ipotesi formulata per doverla scartare. L’ipotesi che ha raccolto più conferme e nessuna smentita si considera attendibile, ma sempre fino a prova contraria. Pertanto si può raggiungere una verità quasi oggettiva solo quando un numero tendente all’infinito di esami dell’ipotesi ha dato esito positivo, e ci si apre sempre alla possibilità della prova contraria.
Il metodo scientifico dopo aver contribuito non poco all’illuminismo e al progresso dell’umanità in generale, oggi ha iniziato ad essere abbandonato dalla scienza. Ciò è avvenuto in particolare con la cosiddetta fisica teorica, la quale finendo con l’occuparsi di realtà troppo distanti dall’apprezzamento fisico umano (buchi neri, multiversi, stringhe) si svincola dall’esame delle ipotesi e finisce sostanzialmente per avallare le tesi solo per la loro autorevolezza o apparente sensatezza, senza il vaglio del metodo galileiano. Ma se l’abbandono del metodo scientifico è comprensibile per occuparsi dei rami più elevati della fisica, non è altrettanto comprensibile in altri campi, come il giornalismo. Si ricordi che il metodo scientifico non è un sistema utile solo agli scienziati, ma nella sua semplicità è un metodo di ricerca della verità applicabile sostanzialmente a tutto: dalla scelta della propria vocazione alle indagini d’inchiesta (osservazione, dati, ipotesi, prove). Oggi la pandemia da Covid inizia a mostrare gli effetti del progressivo abbandono di questo metodo da parte del giornalismo.
Si prenda il caso della natura del Covid. Autorevolissime voci hanno azzardato una correlazione tra il virus e il laboratorio di Whuan, primo focolaio noto della pandemia. Tra queste, a sostegno dell’artificialità del virus, giusto per citarne alcune, ci sono: una fonte anonima del Mossad (l’efficientissimo servizio d’intelligence israeliano); Mike Pompeo (ex direttore della CIA e attuale segretario di stato ststunitense); il virologo Montagnier premio nobel per la medicina nel 2008. Eppure i nostri giornali, dopo l’aver riportato ognuna di queste dichiarazioni, si sono subito affrettati a smentirle. Ma come è possibile, mi chiedo, escludere a prescindere tale eventualità? E’ davvero possibile che appena sopraggiunga una voce contraria alla narrazione scelta si cerchi di tacitarla? E’ ben difficile credere che appena esca la notizia il giornalismo italiano abbia già svolto tutte le indagini necessarie a smentirla. Buttarla immediatamente sul ridicolo tacciandola di complottismo, eludendo un metodo scientifico di indagine, semplicemente non è giornalismo.
Un altro caso simile riguarda le potenziali cure, quantomeno palliative, del virus. Durante il primo lockdown si sono susseguite moltissime informazioni a tal proposito, le più convincenti sembravano riguardare l’utilizzo del plasma. Dette notizie venivano riportate sui giornali e telegiornali solo per essere smontate immediatamente. Probabilmente la ragione di tal comportamento è l’apprezzabile volontà di non far cadere il popolo in false speranze, ma la repentinità delle smentite del sistema mainstrem ha fatto suscitare non pochi dubbi sull’effettività delle indagini svolte in tal senso. A volte sembra prevalere la necessità di una narrazione unica sulla volontà di effettuare ricerca.
Caso ancora più clamoroso è stata la situazione post-voto in America. Trump si proclama vincitore, accusando il suo rivale di brogli elettorali e pertanto inizia cause legali in diversi stati per far valere le sue ragioni e dimostrare i fatti. Al momento non possiamo sapere come si evolverà la situazione, ma nonostante ciò gran parte della stampa nazionale e internazionale ha censurato la notizia oppure la ha comunicata coprendola di ridicolo affermando che non ci sono prove o che Trump non le ha fornite. Bene. Ma non è compito della stampa in questi casi cercare le prove? La stampa potrebbe pronunciarsi contro le posizioni di Trump solo dopo un’attenta ricerca investigativa. Sembra inverosimile che la stessa notte delle elezioni e nei due giorni successivi gran parte della stampa fosse già certa dell’inesistenza di ogni tipo di prova di brogli. Più che l’esito di una indagine sembrava la difesa di una posizione per partito preso.
In conclusione, la stampa ha un ruolo innegabile sulla formazione di una coscienza collettiva dei cittadini. La sua capacità di penetrare la realtà è l’indice della libertà di un popolo. Una stampa inerte, prigioniera della cronaca e dell’opinione, spessissimo politicamente orientata, non fa crescere culturalmente il popolo, ne tantomeno può aiutarlo a capire la realtà e a comportarsi di conseguenza. In un contesto come quello che viviamo o la stampa riscopre la sua vocazione all’inchiesta, alla verità, o il popolo si troverà un alleato in meno e un nemico in più. Ad ogni modo non tutto è perduto. Se da un lato queste carenze della stampa mainstream producono dilagare di confusione e complottismi, dall’altro lato qualcosa di positivo si muove. Parliamo di realtà giornalistiche nuove ed indipendenti, che vivono della donazione libere dei fruitori. Ci sentiamo di citarne alcune come Byoblu di Claudio Messora, Contro Tv di Massimo Mazzucco, Vox Italia Tv di Francesco Toscano, ma ce ne sarebbero ancora molte altre. Tutte queste realtà, nonostante la scarsità di mezzi a loro disposizione e i loro bacini di utenza ancora relativamente piccoli, si sforzano di effettuare quotidianamente approfondimenti, interviste e ricerca della verità. Metodo scientifico allo stato puro: il che non vuol dire senza errori, ma mai con errori ideologici o con difesa di posizioni per principio. Tutti i canali citati sono liberamente fruibili in rete, e ad avviso di chi scrive effettuano un ottimo servizio al popolo italiano.
Anche Pensiero Divergente, nel suo piccolo nasce per questa esigenza. Non siamo giornalisti di professione, non ci prefiggiamo di fare cronaca, ne abbiamo i mezzi per condurre inchieste, e tantomeno manchiamo dell’autorevolezza per esprimere opinioni. Ma proviamo ugualmente a riflettere e a condividere con voi che ci seguite le nostre idee, sperando che risultino “Divergenti” rispetto alla narrazione in cui siamo immersi.
Concludiamo con una citazione di Horacio Verbitsky, giornalista e scrittore argentino, uno dei principali esponenti del movimento argentino per la difesa dei diritti umani, che fu anche militante politico rivoluzionario nei difficili anni della dittatura della giunta militare, il quale, nel suo libro “un mundo sin periodistas” ebbe modo di dire che “Il giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia… tutto il resto è propaganda” .
Antonio Albergo
Classe ’94, diplomato al liceo classico di Pescara Gabriele D’Annunzio, Laureato in Giurisprudenza alla Luiss di Roma e ora praticante notaio. Appassionato di cinema e viaggi, si divide tra la gestione di PensieroDivergente e lo studio notarile.
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