Il racconto che sto per fare è come ho vissuto la quarantena e la crisi del Coronavirus a Stoccarda dove attualmente risiedo. Non sono riportati numeri né fatti particolari che i lettori possono trovare su mezzi di informazione tradizionali. Qui ho voluto far immergere per quanto possibile il lettore in una realtà diversa da quella italiana.

Innanzitutto bisogna dire che Stoccarda e la sua regione hanno una economia molto forte, basata su un’industria potentissima di fama mondiale legata a doppio filo all’automobile e alla meccanica in generale. Quindi, quando a fine 2019 si cominciò a parlare di Coronavirus, la notizia rimase in un primo momento in sordina: c’erano altri problemi e piuttosto grossi. C’era la crisi del diesel che si protraeva, Daimler aveva rilasciato una conferenza stampa in cui per il terzo trimestre consecutivo ammetteva che sarebbe stata in perdita, Bosch stava riducendo drasticamente la forza lavoro e di lì a poco cominciarono a tagliare sul personale anche Mahle e Continental, seguiti a ruota dalla folta, anche se meno nota, schiera dei fornitori: piccole o medie aziende solitamente altamente specializzate che rappresentano il tessuto industriale del territorio.

A Stoccarda il Coronavirus è arrivato a piccoli passi felpati sempre più vicini. All’inizio gli unici a preoccuparsi e a prendere precauzioni furono la comunità cinese di Stoccarda mentre le radio e i telegiornali relegavano la notizia alla fine della trasmissione: era un problema cinese, che ci pensino loro. Oltretutto, la pericolosità del virus venne clamorosamente sottostimata, forse anche a causa della poca lucidità dei dati provenienti dalla Cina, e si pensava che fosse una specie di influenza un po’ più forte.

Il secondo momento fu quando il virus sbarcò in Italia e Codogno venne messa in quarantena. A quel punto fu la comunità italiana a preoccuparsi mentre altrove cominciarono le scommesse se le conferenze internazionali programmate per la primavera si sarebbero tenute oppure sarebbero state annullate. Oggi, forse, sembrerà assurdo pensare che la maggior parte di noi credesse ancora che il problema era circoscritto e poco pericoloso, però in quel momento era ancora lontano, al di là delle Alpi, in un piccolo paesino della pianura Padana, che cosa ha a che fare con noi tutto ciò? Da noi non arriverà.

Più o meno in quel momento fece la sua comparsa sulla scena politica quello che diventerà in breve tempo il protagonista di mezzi di informazione, delle chiacchere tra colleghi e amici e che da lì in poi farà il bello e il cattivo tempo in Germania: il Robert Koch Institut (RKI). Il RKI è un istituto direttamente collegato al ministero della sanità tedesco che monitora le malattie infettive e non in Germania. La prima cosa che fece il RKI fece fu definire delle zone rosse, ovvero delle zone dalle quali chi proveniva doveva osservare due settimane di quarantena a casa non vigilata e comunque senza divieto di uscire di casa. Col senno di poi sembra incredibile che degli scienziati, sicuramente competenti, abbiano limitato all’inizio le zone rosse alle sole province di Bergamo, Brescia e Lodi e al paesino veneto di Vo’. C’è anche da riconoscere che c’era a livello politico e sociale una grande pressione perché l’epidemia frenasse il meno possibile l’economia, rendendo quindi molto difficile la presa di misure più drastiche. Oltretutto il governo di Angela Merkel è uno dei più deboli degli ultimi decenni a causa della caduta dei due grandi partiti politici (CDU e SPD) che hanno costretto la cancelliera a creare una “grande coalizione” che, come noi ben sappiamo, rende molto più difficile prendere posizioni decise e impopolari anche se necessarie.

Nonostante le raccomandazioni, il mondo sembrava andare avanti con la solita inerzia.

All’inizio di Marzo c’è sempre nella regione di Stoccarda una settimana di vacanze scolastiche prima della Quaresima che viene sfruttata da quasi tutte le famiglie per andare a fare la settimana bianca sulla Alpi. In quella settimana migliaia di famiglie, se non forse di più, sono andate in qualche località sciistica delle Alpi. Le mete più ambite sono state il Trentino, l’Austria e qualcuno addirittura in Lombardia, in Valtellina. Il venerdì di quella stessa settimana, il RKI aggiunse la Lombardia per intero alla lista delle zone rosse. La settimana dopo anche il Trentino e poi anche l’Austria.

Era già troppo tardi. Nella vicina Baviera il primo paesino era stato messo in quarantena. E la Baviera è un po’ la Lombardia della Germania: la regione più ricca e più avanti rispetto al resto del paese, con più contatti internazionali ecc… Insomma, sembrava si stessero ripetendo gli stessi identici errori italiani con due settimane di ritardo. Persino il numero dei nuovi casi stava copiando la curva italiana con due settimane di ritardo.

C’era comunque una differenza molto importante: il numero dei morti restava bassissimo. Al riguardo si sono sprecati fiumi di inchiostro, forse un po’ troppo precocemente. La spiegazione che a me sembra più ragionevole è che si sia trattato di una fortunata combinazione di fattori sociali ed economici. Da un punto di vista sociale, l’essere un popolo più “freddo” (non ho mai visto un genitore dare un bacetto al figlio né tanto meno abbracciarlo) sembra averli aiutati. Le famiglie qui sono più divise e molti anziani vivono da soli. Il secondo punto di forza fu che il sistema sanitario poteva vantare di un numero molto superiore di letti di terapia intensiva e di respiratori. Molti altri ne vennero allestiti anche grazie alle notizie che arrivavano dall’Italia.

La situazione continuava a deteriorare. L’unica vera e propria esplosione si ebbe in un paesino nella regione della Vestfalia (Nordrhein-Westfalen) in cui non vollero rinunciare alla tradizionale sfilata di carnevale con annessa birra e promiscuità diffusa… non certo il meglio se sta gravando la spada di Damocle di una pandemia.

Anche a Stoccarda il virus incominciò a circolare. Il dramma avvenne quando l’amatissima Daimler e a ruota anche Porsche dovettero chiudere la produzione. Infine arrivò il tanto famoso Home-Office. Tutti quelli che potevano, dovevano lavorare da casa anche se non fu mai introdotto nulla di lontanamente simile all’autocertificazione. Il governo cambiò il regolamento della cassa integrazione (qui Kurzarbeit) di modo che le aziende potessero più facilmente avere accesso. La cassa integrazione qui arriva a pagare fino al 97% dello stipendio… insomma per i dipendenti poteva andare peggio.

Angela Merkel parlò alla nazione dopo il telegiornale delle 18. Diede dei consigli di buon senso, chiese alla nazione di stringersi e di essere solidale come durante la seconda guerra mondiale. Avvisò del pericolo rappresentato dal virus ma non parlò nemmeno di introdurre una quarantena obbligatoria per tutti. Le limitazioni consistevano a poter invitare al massimo cinque persone a casa mentre in spazi pubblici si può stare al massimo in due.

Durante la seconda metà di Marzo e tutto Aprile le cose sembravano essere arrivate a uno stallo. I tedeschi si dimostrarono piuttosto ligi al dovere e restarono a casa.

Nell’ultima settimana, tuttavia, si è visto un diffuso rilassamento. Nei parchi e in giro per la città si incominciano a vedere gruppetti e persino la polizia, che di solito è molto più impicciona e presente che in Italia, sta chiudendo un occhio. Le fabbriche stanno riaprendo, da questa settimana ci sono di nuovo le messe, da settimana prossima si gioca di nuovo a tennis e io mi sono appena tagliato i capelli da un parrucchiere di turchi che per qualche motivo si chiama “Figaro da Vinci”.

Dell’Italia non si parla più. Adesso c’è qualcosa di più importante: bisogna ripartire. Perché qui la gente ripete sempre: Wir schaffen das, possiamo farcela.

N.B.: Wir Schaffen Alles significa “Noi riusciamo a fare qualsiasi cosa”. E’ il motto del Baden-Wurttemberg, la regione di Stoccarda.

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