«Dottore tutto bene?»
Vicente De La Cruz era piegato su di lui, il suo corpo immobile, disteso in terra, sembrava moribondo.
«Dottore, ehi!».
Finalmente il dotto Jenner aprì gli occhi. «Che… cosa succede?», mormorò a malapena.
«L’ho trovata qui, da solo, mi sembrava strano che se ne fosse andato in giro così»
Jenner si diede un’occhiata intorno. Sembrava stordito, intontito, come dopo una sana ubriacatura.
«Dottore, che è successo?». De La Cruz si chinò su di lui.
L’uomo scosse il capo. «Ah, niente!», mugugnò. «Forse la stanchezza»
«La stanchezza l’ha fatta crollare per terra?», chiese in tono sardonico.
Jenner gli lanciò contro un’occhiataccia; come poteva mettere in dubbio le sue parole? Gliel’aveva appena detto che non sapeva cosa gli fosse successo, ma insisteva… che rabbia! Avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma improvvisamente una voce chiamò.
«Aiuto!», gridava. «Aiuto»
Jenner e De La Cruz si precipitarono fuori dalla stanza, accorrendo verso la voce.
«Dottore, ci serve aiuto!», gridò.
Era Smith, sembrava cereo in volto e tremò quando anche Bruce Stevenson comparve alla soglia del corridoio. «È… è…», balbettò.
«Che succede Smith?», tuonò il dottor Jenner, scuro in volto. «Riprenditi, ragazzo, cosa sono questi schiamazzi?»
Quello si morse il labbro inferiore, la fronte era madida di sudore. «È Dina, lei è…». Glielo disse; e tutti accorsero sul luogo dell’incidente. Lei era lì, distesa in terra, proprio come Jenner poc’anzi. La tuta era squarciata sulla gamba, il casco ammaccato. Tutti la circondarono, inquieti, domandandosi cosa le fosse accaduto.
«Dina, no!». Bruce si gettò sul suo corpo. Anche il dottore fece lo stesso e con un velo di amarezza disse: «Non respira…»
Quelle parole furono tanto improvvise e inaspettate che tutti restarono senza fiato, immobili a fissare quella figura distesa in terra. 
Il dottore sollevò lo sguardo; i suoi occhi non mentivano. «Ha bisogno di ossigeno», disse. «Ha bisogno di ossigeno!», ripeté.
«Aiutiamola». Bruce Stevenson e Vicente De La Cruz trasportarono la signorina Kehrer in infermeria, l’adagiarono sul letto e il dottor Jenner prese a sfilarle la tuta di dosso. «Ora lasciatemi fare il mio lavoro»
Gli altri rimasero ancora intontiti.                                      
«Mi serve spazio e silenzio, quindi andate!», comandò, e allora tutti scivolarono fuori dalla stanza. Quando le porte si richiusero alle loro spalle, Bruce parlò: «Ha respirato lì fuori?», chiese rivolgendosi direttamente a Edward Smith, ma quello sembrava imbambolato. «Ti ho chiesto…», fece avvicinandosi al suo viso. «…se ha respirato lì fuori»
«Io…», balbettò. «Io non lo so. Sono corso subito da voi, dal dottore a chiedere aiuto»
Bruce lo squadrò con severità; ora lo fronteggiava a testa alta, fissando i suoi piccoli occhi marroni. «Lo sapevi, tu sapevi che Dina soffriva di vertigini!»
«No, io non…»
«Lo sapevi!», vociò.
Il giovane Smith indietreggiò, vacillando.
«Dal primo giorno che siamo qui ce l’ha detto, ha anche provato ad uscire lì fuori una volta, ma non ce l’ha fatta e tu ora, dopo quello che è successo, vuoi dirci che non ne sapevi niente?»
Quello non rispose, tanta doveva essere la paura e poca la sua convinzione.
«Se dovesse accaderle qualcosa ce l’avrai sulla coscienza»
«Mi dispiace…», mormorò.
«Sì», gli sussurrò. «Ce l’avrai sulla coscienza»

Nella sala di controllo della stazione, Galeus Brisbane fu chiamato dal dottor Jenner attraverso la ricetrasmittente. «Sì?»
«Comandante, la prego di venire subito in infermeria»
Il dottore informò il capitano dell’incidente, di ciò che era successo alla signorina Kehrer, e poi lo avvisò dell’altra situazione, quella per cui i restanti membri dell’equipaggio attendevano nella sala riunioni.
Il comandante e il dottore li raggiunsero subito dopo e quello che videro fu a dir poco sorprendente: un uomo era seduto, circondato da tutti gli altri.
«Chi è costui?». Galeus Brisbane parlò con severità.
Bruce squadrò il giovane Smith; con un colpo d’occhio sembrò incitarlo a parlare.
Quello si fece avanti e mormorò soffusamente: «Ecco… io l’ho visto entrare nella stazione. Lì, dalle porte della Torre»
Tutti si voltarono.
«Stavo correndo per cercare aiuto, per salvare Dina»
Bruce strinse le mani a pugno, trafiggendolo con lo sguardo.
«Le porte sono sigillate, però!», esclamò De La Cruz.
Silenzio.
«Insomma, così è sempre stato, così ci hanno detto. Nessun collegamento con l’esterno, in nessun modo!»
Il comandante si fece cupo in volto. «Così è stato fino ad oggi», disse. «Quindi? Lei chi è?»
L’uomo sollevò il capo mestamente. Era anziano, aveva una pelle grinzosa, capelli d’argento, lunghi e lisci, che gli scivolavano fin sulle spalle, e i suoi occhi erano tremendamente vitrei. Passando incessantemente dall’uno all’altro dei visi che lo circondavano, mormorò: «C’è stato un incidente alla stazione… un grave incidente»
«Quale incidente? Di che tipo?»
«Un pericoloso incidente…», disse. «Io… non so cosa sia successo effettivamente, ma la gente, gli altri erano… come impazziti»
«Impazziti?», gli fece eco Bruce.
«Sì, sapete, fuori di testa. Prima un gruppo di coadiutori è venuto a parlarci di qualche cavo sospeso nella stazione, di una perdita di energia, di qualche strano aggeggio che trasmetteva dei codici, dei numeri che abbiamo pensato fossero codici, appunto»
«E poi?»
Tutti lo fissarono in rispettoso silenzio.
«E poi, dopo poche ore sono ritornati. Sono ritornati con spranghe e martelli e asce, e ci hanno minacciati, hanno iniziato a distruggere i computer della stazione, hanno perfino accoltellato le guardie e qualche collega, hanno… hanno ucciso delle persone lì sotto». I muscoli della sua gola si contrassero; di certo, doveva aver fatto un grande sforzo a parlare.
“Ucciso? Ucciso le persone?”.
Tutti restarono attoniti.
«Hanno ucciso, hanno distrutto. Mi sono salvato per miracolo», disse.
Ci fu silenzio; un silenzio attonito e smarrito.
«Bè…», mormorò il dottore. «Questa è la cosa più assurda che abbia sentito. Delle persone che lavoravano alla Base sono d’un tratto impazzite e hanno cominciato ad uccidervi? A distruggere l’intera stazione?». La sua voce si fece ansiosa, quasi impaziente.
«Non so se l’hanno distrutta, ma hanno fatto a pezzi i computer, le ricetrasmittenti, le radio, gli schermi, ogni cosa»
«Quindi l’hanno distrutta…». Il dottore piegò lo sguardo.
L’altro sospirò. «È stato tragico, davvero, io… non riesco ancora a credere d’avercela fatta»
«Come si è salvato?». Stavolta, fu Galeus Brisbane a parlare, con voce sottile e chiara, con il tono di chi sapeva perfettamente come gestire la situazione.
«Ognuno di noi operatori ha un codice speciale da digitare per attivare gli ascensori, per sbloccare le porte. Così ho fatto e sono corso via senza voltarmi indietro»
«Nessuno l’ha seguita?»
«No…»
«È strano, non crede? In una situazione simile qualcuno avrà pensato a scappare con l’ascensore, no?»
«Molti hanno provato a uscire dalla stazione, ma le porte erano blindate. Sono stati trafitti mentre provavano a fuggire. Io sono riuscito a scappare perché nessuno ha pensato di rimanere lì dentro!»
Tutti lo osservarono.
«Va bene», disse il comandante, laconico e aspro.
A quel punto, Bruce parlò. «Va bene? Capitano, le sembra normale una situazione simile?»
«Sono d’accordo, non è normale! Avremmo dovuto saperne qualcosa, dico io, se non dal quartier generale almeno da qualcuno ai piani alti!». Anche il tono di voce di De La Cruz fu così significativo che il comandante li guardò intensamente.
Il solo Edward Smith rimase in silenzio, con i suoi piccoli occhietti a guardare gli altri discutere. C’era uno strano miscuglio di curiosità e apprensione nel suo sguardo.
Il capitano placò il tumulto con un semplice gesto della mano. «Interverremo secondo il protocollo», disse solamente.
«E cosa prevede il protocollo?». Bruce guardò Brisbane; il suo sguardo sfidò quello del capitano.
Lui assunse un tono severo, freddo. «Non hai diritto di conoscerlo, subalterno!», vociò grave. «Me ne occuperò io e con me il dottore», disse, rivolgendosi a Jenner. «Voi altri tornate alle vostre mansioni, questa stazione ancora funziona ed è nostro dovere far sì che tutto vada come previsto», concluse.
De La Cruz fece un passo indietro e anche Bruce lo seguì, ma lo sforzo gli costò non poca fatica. Fece una smorfia sprezzante.
“Non mi piace quello”.
«Smith!». Brisbane si rivolse al giovane assistente del dottor Jenner.
«Signore?»
«Non abbiamo ancora avuto modo di conoscere il suo nome…»
L’uomo anziano sollevò il capo. Gelido, rispose soltanto: «Mitchell… Gareth Mitchell»
«Porta il signor Mitchell in infermeria e fagli un controllo generale, non vorrei che abbia sbattuto la testa troppo forte», disse in tono mordace.
«Ma allora non mi credete?!». Quello s’alzò di scatto, il suo viso era avvolto da un cupo rossore.
«A suo tempo, signor Mitchell, vede, qui siamo soliti confermare con i fatti certe parole. Non è certo una cosa da prendere sottogamba quello che ha detto»
Ed infatti, come poteva essere? I pensieri di tutti indugiarono su quanto aveva raccontato quel tale, Mitchell. Poteva essere vero? Sarebbe stata una disgrazia…. Gente che aveva ucciso e distrutto la Base, così, dal nulla? No, ci doveva essere una spiegazione. Era quello che Brisbane si promise di scoprire. Allora si recò nella sala delle comunicazioni e, per la seconda volta durante la sua permanenza sull’Admiral, infranse l’isolamento. Forse stavolta non poteva dirsi che lo stava realmente infrangendo; del resto, era stato quell’uomo ad usare l’ascensore, a prendere una decisione inaspettata. Ma fatto sta che qualcuno, dopo pochi secondi, ripose all’apparecchio.
«Base, qui è la Torre, mi ricevete, passo»
Nessuno parlò.
«Base, so che ci siete, rispondete, passo»
Brisbane avvertì un respiro pesante, affannoso, che si sollevava dall’altro lato della trasmittente.
«Base?»
Il silenzio si fece quasi surreale.
«Chi parla?», disse una voce.
«Il comandante Galeus Brisbane della Torre, voi chi siete?»
«Caporale Patrick Hall, addetto alle comunicazioni»
Il capitano inarcò un sopracciglio, increspando il volto. “Davvero strano”, pensò.
«Cosa succede, comandante? Perché avete infranto l’isolamento?»
Galeus Brisbane si fermò un istante. Doveva essere sicuro, essere certo di quello che stava succedendo… ma il suo cuore gli suggerì di aspettare. Prese un profondo respiro prima di parlare. «Avete avuto informazioni sul campione che vi abbiamo inviato?»
La voce si acquietò. Per un istante, sembrò come se si fosse spezzata, come se nessuno si trovasse dall’altro capo dell’apparecchio. Era una sensazione disarmante. Galeus Brisbane se ne accorse subito.
«Negativo, comandante. Il dottor Mitchell non ha ancora completato le operazioni preliminari, in realtà»
“Mitchell?!”
«Posso fare altro per lei?»
Brisbane aggrottò la fronte, i suoi occhi si fecero incredibilmente vispi.
«Comandante?»
«No», disse solamente. «Ti ringrazio per il tuo tempo, caporale Hall»
«Le faremo sapere noi non appena avremo informazioni»
«Bene»
«Qui Base, chiudo»
La comunicazione si interruppe.
Brisbane rimase a ciondolare sulla sedia, le mani piegate dietro la nuca e lo sguardo fisso su un angolo imprecisato della stanza. “Mitchell… Mitchell… dove ho già sentito questo nome?”

«Ti riprenderai, vedrai. Il dottor Jenner ha detto che è solo una questione di riposo. I segni poi spariranno col tempo!»
Bruce sedeva accanto al letto della signorina Kehrer. Lei, coricata, aveva dormito per tutta la mattina. Chiese chi fosse quell’uomo accanto ad Edward Smith, come fosse arrivato fin lì, cosa ci facesse in infermeria. Incontrando i suoi occhi avvertì un brivido di terrore.
«Mitchell si chiama». Bruce le raccontò ogni cosa.
«Morti? La Base distrutta?»
Il ragazzo chinò il capo sconsolato.
«Ma è impossibile, cioè… e noi? Che faremo noi? Come ce ne andremo da qui?»
«Il capitano sta contattando il quartier generale, lui saprà cosa fare». Così le disse, ma non sembrò troppo convinto. In cuor suo, Bruce aveva sì fiducia nel suo comandante, ma al tempo stesso non credeva ci fosse molto da fare; in realtà non sapeva cosa fare. Aveva paura, ma non poteva darlo a vedere; doveva mantenere viva la speranza, doveva farlo per Dina, ora più che mai.
Proprio in quel momento, un urlo riecheggiò nella stazione; un urlo freddo, glaciale.
«Chi…?!»
Smith e Mitchell si precipitarono fuori dalla stanza.
«Vai!», gli gridò Dina; e anche Bruce si tuffò nel corridoio, correndo verso la voce.
«Che succede?», gridò.
Lo trovarono in un angolo, ansimante. Si teneva la mano destra stretta a pugno e i suoi occhi vacillavano, tremavano: era il dottor Jenner, rannicchiato in terra come un animale.
«Dottore, che succede?». De La Cruz era già piegato su di lui. «Sta bene? Che cosa…». E poi i suoi occhi caddero sulla sua mano. Ma non sembrava una vera mano… la pelle era smorta, arrossata di un colore bluastro, le vene e le arterie parevano contorcersi tra loro e il sangue pulsava e si affollava per uscire.
«Fa male», imprecò. «Brucia!».
«Dottore che è successo?», vociò De La Cruz.
«Acqua…», ansimò. «Portatemi dell’acqua»
«Acqua, Stevenson», comandò De La Cruz e Bruce si precipitò fuori dal corridoio.
«Ma che le succede, dottore?». Anche il giovane Smith si chinò al suo fianco.
Kyle Jenner aveva il volto contratto in una smorfia di dolore. Sudava, annaspava, e la mano era tremendamente rovinata; sembrava anche più grossa dell’altra. «Ero in laboratorio, stavo… stavo censendo i dati dell’ultimo mese quando ho sentito un formicolio, ho guardato la mano ed era… era così…»
«Improvvisamente?»
«Non me n’ero accorto», disse. Si rivolse al suo assistente. «Ed, ragazzo mio, devi aiutarmi. Devi aiutarmi a capire che mi è successo»
«Sì, dottore, certamente»
«Ecco l’acqua!». Bruce Stevenson ricomparve sulla soglia del corridoio. «Ho preso anche del ghiaccio», disse.
Il dottore l’afferrò subito. Bevve un sorso d’acqua mentre De La Cruz prese a bendargli la mano. “Spero che non sia contagioso”, pensò, stando ben attento a non toccarla. «Fatto! Sta meglio ora?»
Jenner boccheggiò. «È un dolore terribile»
“Ci credo”, pensò Bruce. E nel frattempo si scambiò un’occhiata con De La Cruz. “Ma dice che non se n’è accorto… ma allora, come si è ridotto così?”

L’orologio alla Torre segnava le 8:04 di sera.
Il comandante Brisbane era solito dargli un’occhiata per capire quanto tempo trascorresse immerso nelle sue occupazioni. In quel momento, era ancora nella sala delle comunicazioni; e pensava, rifletteva: voleva capire cosa stesse succedendo. Il capitano non era certo il tipo da fare rapporto a mani vuote; doveva dare al suo equipaggio informazioni concrete; non poteva indugiare. Pochi minuti prima, il sottoufficiale Hall aveva parlato di un certo dottor Mitchell che stava esaminando il campione di ossigeno che Jenner gli aveva inviato. E pensò: “quell’uomo aveva un parente? O si tratta solo di un caso di omonimia?”. C’era un modo per capirci meglio, un modo che solo Brisbane conosceva e a cui non avrebbe mai dovuto ricorrere se non fosse stato estremamente necessario. Se quel Mitchell stava dicendo il vero, allora doveva agire. Così estrasse una chiave dai suoi indumenti, aprì un piccolo contenitore di vetro e digitò un codice. Gli schermi della sala delle comunicazioni lampeggiarono, poi, si accesero.
Galeus Brisbane avvampò, la sua fronte si imperlò di sudore. E poi li vide: vide un mucchio di cadaveri, alcuni ammassati di lato, altri sparpagliati per il salone. Le telecamere gli stavano mostrando la verità? Non seppe a che credere, ma i suoi occhi non mentivano. Nell’Admiral erano tutti morti? Un uomo che indossava un camice giaceva in un angolo. Brisbane usò l’analizzatore molecolare per un’approssimativa autopsia sul cadavere e fu a quel punto che trasalì: Caporale Patrick Hall, dicevano i dati: era morto da più di 2 ore…
Colpito dall’orrore per quella scoperta, Brisbane si accorse di un’altra terribile rivelazione quando i suoi caddero sull’orologio della Base, che campeggiava, grande come una finestra, accanto al corpo senza vita del giovane caporale. Funzionava, su quello non c’era dubbio, ma esso segnava le 5:30 del pomeriggio… ben 3 ore indietro rispetto a quello della Torre.
Qualcosa non andava. C’era qualche guasto? Non sembrava… allora, come poteva essere? Che cosa stava succedendo?

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