Spesso mi capita di dover ammettere di non conoscere a sufficienza Dostoevskij.

Delitto e castigo” lo lessi in età troppo prematura e finii per non apprezzarlo. “I fratelli Karamazov” mi aspettano al varco da molto tempo e non ho ancora trovato il momento giusto per conoscerli. Invece per quanto riguarda il mio rapporto con “l’Idiota” c’è una storia tutta particolare che vado oggi a condividere.

Si era in piena estate 2018.
Il Covid era ancora di là da venire. La “Questione Ucraina” all’epoca poteva interessare solo se si era grandi appassionati di geopolitica.

Fondamentalmente era un periodo in cui si respirava un’aria di possibilismo estremo. Tutto era possibile, qualunque cosa poteva quantomeno tentarsi.

Fu in questo contesto che con altri sei amici decidemmo di affrontare il cammino di Santiago.

Avevamo due settimane a disposizione, a fronte di un cammino che richiedeva 40 giorni pieni di viaggio.

La prima grande questione fu scegliere quale tratto affrontare con soli quindici giorni. Tra i futuri compagni d’avventura nacquero due correnti di pensiero che chiameremo per semplicità: la soluzione giuridica e la soluzione romantica:

La soluzione giuridica prevedeva di percorrere le ultime 15 tappe canoniche, così da arrivare infine a Santiago, chiudere lì l’esperienza e tornare a casa con una storia completa da raccontare. La partenza sarebbe stata dunque in medias res, e precisamente da Leon, una piccola cittadina tra la castilla e la galizia, e assicurava l’arrivo a destinazione.

La soluzione romantica invece prevedeva di partire dal tradizionale inizio del percorso, il paesino francese di Sant Jean Pied de Port. Da lì ci saremmo incamminati per valicare i Pirenei al passo di Roncisvalle e poi avremmo proseguito per quanto possibile nei quindici giorni successivi. Il quindicesimo giorno avremmo preso un bus qualsiasi per Madrid dove avremmo avuto il volo di rientro.

La discussione più che logistica era filosofica. Da un lato si prospettava la chiusura di un cerchio. Il motto della soluzione giuridica era “se facciamo il cammino di Santiago occorre che arriviamo a Santiago“. Dall’altro lato c’era una visione che più che a chiudere un cerchio mirava ad aprirlo. Una visione secondo cui non era tanto importante l’arrivo, ma il viaggio. Il ragionamento della soluzione romantica era “viviamo quel pezzo di strada insieme, iniziamolo, anche se sappiamo che non possiamo percorrerlo tutto. Non fa niente, intanto viviamoci quel pezzetto, al meglio delle nostre possibilità. Magari un giorno lo finiremo“.

La discussione fu amichevole ma intensa, e durò un paio di mesi pieni. D’altra parte coordinare sette compagni non era una faccenda banale. Ma al termine di innumerevoli vinelli e dispute filosofiche, in qualche modo la linea romantica riuscì a prevalere.

Il primo agosto di quell’anno dunque partimmo da Milano alla volta di Tolosa, località da cui raggiungemmo la tappa iniziale, il paesino francese di Sant Jean Pied du Port, il posto da cui sarebbe partita la nostra avventura. Non sapevamo esattamente dove saremmo arrivati. Non sapevamo nemmeno dove avremmo dormito le notti successive, nè cosa avremmo mangiato o trovato. Contavamo solo sul nostro allenamento, sulla forma fisica, sul tempo favorevole, sull’unità del gruppo e in un certo qual modo nella Provvidenza.

Ci sono fondamentalmente tre modi di affrontare il Cammino di Santiago.

C’è il modo sportivo: lo si vive come una grande prova fisica con cui misurarsi. Percorrere questa via millenaria diventa dunque l’occasione per mettersi alla prova o per dimostrare le proprie prestazioni, anche solo a se stessi.

Poi, in alternativa, c’è il modo religioso: si percorre questa via riflettendo sul fatto che si stanno seguendo i passi di un uomo che accompagnò Gesù Cristo per la Galilea duemila anni fa. Ci si prova ad immedesimare con lui, con San Giacomo, con l’ausilio della natura, della lettura di testi sacri e con la partecipazione a rituali religiosi.

Infine c’è il modo “possibilista. Cioè quello di una serie di persone lontane sia dall’agonismo fisico sia da una ricerca religiosa totalizzante. Questo tipo di persone cerca un non so chè di indefinito, che può essere l’amore, l’ispirazione o ancora la voglia di distrarsi da un problema troppo grande.

Ad ogni modo tutti quelli che si incontrano sul cammino stanno cercando qualcosa. Qualcosa di intimo forse, di personale, ma ognuno cerca un pezzo di sè, indipendentemente dalla categoria a cui appartiene.

Ad agosto, ogni giorno tra una tappa e l’altra si muovono circa 150 persone e, tra bar, ostelli, ristoranti e sentieri, dopo un pò si finisce per conoscersi un pò tutti, quantomeno di vista.

E dopo vari giorni si inizia almeno ad intuire quali sono gli spettri che spingono ognuno a quest’avventura.

Io di base volevo riscoprire la mia fede e pensavo di appartenere alla seconda categoria di viaggiatori, quella dei religiosi. Mi ero anche portato un libro molto specifico da leggere in viaggio “I Pensieri” di Pascal. A quanto ne sapevo leggendo quel libro un medico giapponese di metà Novecento si era convertito dallo scintoismo al cristianesimo, distinguendosi poi a Nagasaki per l’aiuto alla popolazione colpita dall’atomica (il suo libro “Le campane di Nagasaki” fece storia).

Dunque “I Pensieri” di Pascal mi sembravano una lettura sostanzialmente obbligata per quel tipo di viaggio, o almeno per come lo volevo impostare.

Ci impiegai quasi quattro giorni a capire che per me quel testo era assolutamente insostenibile. Stimai che più che ritrovare la fede in quelle pagine l’avrei definitivamente persa.

Quella sera ci trovavamo a Pamplona, in uno dei più grandi albergue in cui capitammo. Decisi di abbandonare quel libro in un punto strategico. Magari qualcuno lo avrebbe trovato un giorno e ne avrebbe ricevuto qualcosa per me inaccessibile. Ricordo che girai per i corridoi delle camerate almeno per dieci minuti alla ricerca del posto giusto in cui scaricarlo. Alla fine trovai una mensolina, la quale richiamò la mia attenzione in quanto ci era poggiato sopra un piego di carta.

Posai i Pensieri di Pascal e raccolsi quel piego. Mi resi conto che era una piccola parte di un libro più grande. A occhio era un terzo, o al massimo un quarto di un più ampio volume. Lo girai tra le mani e trovai la copertina. Era una bella edizione dell’ Idiota di Dostoevskij. Subito dopo la copertina c’era una sorta di dedica che andrò qui sotto a riportare:

Buona lettura! Questa parte l’ho già letta e la lascio qui. Nel cammino spero di leggere ancora e di lasciare i pezzi che leggo sulla strada, così puoi continuare. Buon Cammino. Emanuela. Ottobre 2015“.

Il piego di carta dunque era la prima parte del celebre romanzo russo.

Le prime 274 pagine per l’esattezza.

Lungo il cammino il peso di ciò che porti ha un’importanza elevatissima. Tutto ciò che hai devi sapertelo portare appresso.

Tendenzialmente un uomo medio può portare per trenta km al giorno non più del decimo del suo peso. Dunque una persona sui 70 kg avrebbe serie difficoltà a portare uno zaino complessivamente superiore ai 7 kg.

Non era infrequente lungo la via vedere persone esasperate dai propri averi superflui scaricare ogni sorta di oggetti: sacrpe aggiuntive, ricambi, trucchi, ricordini…

“L’idiota” doveva pesare parecchio come libro e quindi questa pellegrina aveva avuto la buona idea di alleggerirsi lasciando indietro le parti già lette.

Geniale a suo modo.

Anche perchè lei si alleggeriva e dava modo a qualcun altro di intraprendere una sorta di caccia al tesoro.

Dall’ottobre 2015 all’agosto 2018 quel piego era rimasto su un mensola polverosa di un enorme ostello di Pamplona.

Ora lo avevo trovato io.

Troppo stanco per riflettere ulteriormente sulla faccenda, tornai al mio letto e andai direttamente a dormire.

Il giorno successivo, nel piccolo paesino di Puente La Reina, una volta finita la marcia, iniziai a leggere.

Mi innamorai immediatamente dello stile e della narrazione di Dostoevskij. Il giorno ancora dopo arrivai a pagina 274 e mi ricordai di botto che il libro non continuava. Dove avrei trovato il resto? Fu solo a quel punto che raccontai del “ritrovamento” ai miei compagni d’avventura.

La fatidica Emanuela, che aveva firmato la dedica, doveva aver iniziato il viaggio come noi a Sant’Jean Pied de Port. Se a Pamplona aveva letto già 274 pagine voleva dire che avremmo dovuto trovare il prossimo “pezzo” tra tre giorni circa.

Però subito convenimmo che c’era la possibilità che la ragazza in questione avesse letto anche nel viaggio in treno/aereo. Anzi a ben pensarci era quasi sicuro che avesse fatto così e allora si sballavano tutti calcoli.

Quanto aveva potuto leggere in viaggio? In primis dipendeva dal viaggio, e non avevamo idea da dove fosse partita.

In secundis non stava scritto da nessuna parte che avrebbe staccato altri pezzi esattamente ogni 274 pagine.

Dopo una serata di calcoli inutili conditi da molte Cervezas decidemmo che era impossibile stimare con certezza dove fossero gli altri pezzi. Avremmo fatto bene a controllare in ogni paese in cui saremmo arrivati.

Il problema era che in ogni paese, per quanto piccolo che fosse, c’erano infinite sistemazioni. C’erano gli Albergues comunali, poi c’erano i monasteri religiosi, e ancora c’erano i classici alberghi privati. Teoricamente i pezzi mancanti potevano essere in uno qualunque di questi luoghi, in base a dove questa Emanuela avesse eventualmente soggiornato.

Considerando che la prima tranche si trovava in un albergues io puntai su quelli, ma era una scelta abbastanza azzardata (noi stessi variavamo la natura della sistemazione di giorno in giorno in base a vari fattori)

L’indomani decisi di mettermi in cammino col mezzo libro in mano.

Se mi fermavo a parlare con qualcuno, per la via o in un bar, gli raccontavo la storia, gli mostravo il libro e la dedica, e nove volte su dieci l’interlocutore si lasciava coinvolgere e affascinare dalla vicenda.

Tutti stavano cercando qualcosa sul cammino, e per un gioco del destino io stavo cercando qualcosa di concreto, di fisico, di tangibile.

In un mare di incertezze poter stringere un obiettivo concreto è già un successo inimmaginabile, e trascinava i più.

Tre giorni più tardi eravamo a Logorno, il capoluogo della Rioja, una delle prima grandi città che incontravamo.

Oltre il mio gruppo di sette amici, ormai erano impiegati nella ricerca del libro almeno una trentina di conoscenti. Ricordo che quella sera bevevamo birra e mangiavamo tapas nella main street della città, e molti altri pellegrini passando mi informavano che nel loro albergo nulla, non lo avevano trovato. Ormai delle 150 persone che si muovevano di giorno in giorno da una tappa all’altra si stava spargendo la voce e sempre più persone si interessavano della vicenda.

Passò così tutta la settimana successiva.

Arrivammo infine a Burgos, il capoluogo della Castiglia. Era il nostro quindicesimo giorno, e dunque la fine del nostro viaggio.

Non eravamo riusciti a trovare nessuno degli altri pezzi dell’idiota.

Il viaggio per me finiva lì, c’era poco da fare ormai.

Fu quasi una delusione collettiva. In molti si erano appassionati alla ricerca e di città in città quasi tutti ormai mi informavano della situazione dei loro ostelli.

Salutandomi con i compagni conosciuti lungo la strada in tanti mi promisero che se mai avessero trovato il resto del libro lo avrebbero lasciato dov’era, con le loro firme aggiuntive, sicuri che prima o poi avrei continuato il viaggio.

Spesso mi chiesi come fosse proseguito il viaggio di Emanuela. Aveva letto ancora? Non aveva staccato altre parti? O forse si era fatta male, le era successo qualcosa e aveva dovuto interrompere il viaggio? O forse ancora più semplicemente io non ero riuscito a trovare i pezzi mancanti che lei aveva seminato?

Me lo chiedo tutt’ora.

A Madrid, quando ci salutammo noi 7 amici ci ripromettemmo che avremmo continuato il cammino insieme prima o poi. Nel prossimo momento spartiacque della vita di qualcuno di noi, quel qualcuno avrebbe avuto l’onere di riformare la squadra e ripartire. Tutti o nessuno. Solo così l’avremmo continuato.

Il momento in cui scrivo è il primo giugno 2023. Il cammino non è ancora stato continuato e i pezzi mancanti del libro di Emanuela non sono ancora stati trovati da nessuno. Ma questo poco importa.

Quello che davvero ha importato è stata la ricerca. Per una settimana decine di persone lungo il cammino sono state impegnate da una ricerca concreta che le ha affascinate e le ha spinte ad osservare la realtà con più attenzione. Quello che davvero ha fatto la differenza, per me e per chi si è lasciato sedurre da questa storia, fu vivere quel pezzo di strada, quel pezzetto di vita provando a fare una cosa abbastanza impossibile: trovare lungo una strada lunga centinaia di kilometri, con decine di deviazioni, i resti del passaggio di una misteriosa viaggiatrice di 3 anni prima.

Più ci ripenso e più mi convinco che quella ricerca coinvolse tanto tanta gente perchè è quello che facciamo tutti i giorni. Cerchiamo di capire il prossimo, di intercettare i suoi sentimenti, le sue aspirazioni per vedere se ciò che lascia indietro può arricchirci se non addirttura completarci, il tutto senza alcuna garanzia di successo o di utilità ma solo per inseguire un’idea di romanticismo.

Ad ogni modo, il frammento de “L’idiota” è sempre sulla mia scrivania, a ricordarmi che lungo una qualche strada, da qualche parte, ci sono i pezzi mancanti in attesa di essere trovati.

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Comments to: Il pezzo mancante
  • 2 Giugno 2023

    Grazie per questo bellissimo articolo, ho qualche anno in più di te ma mi hai fatto ricordare una avventura simile vissuta con alcuni amici in treno in giro per l\’europa (inter rail) ed ad ogni ostello di ogni capitale c\’era un diario dove i viaggiatori vagabondi lasciavano traccia del loro passaggio, a Praga ci siamo separati ma ognuno lasciava un messaggio agli altri, alla fine incredibilmente ci eravamo ritrovati nel \”facebook\” cartaceo dell\’Ostello di Genova…. tornati a Pescara fu un piacere raccontarci questa rincorsa virtuale. Mi ero quasi dimenticato di questa storia ma il tuo articolo mi ha riportato indietro di 30 anni…..:)

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