Se una mattina qualunque in questi giorni tutti uguali ti affacciassi sulla Nomentana per godere almeno con lo sguardo del mattino soleggiato, vedresti un vecchio giù in strada che aspetta l’autobus, solo alla fermata. Indossa un vestito elegante, di quelli che portava con naturalezza una generazione quasi interamente consegnata alla storia. Osservandolo con più attenzione noteresti che è tutto avvolto in un cappotto abbottonato, impeccabile nonostante il caldo di aprile, e penseresti che sicuramente non esce dall’inizio dalla quarantena. Dopo qualche minuto arriva il novanta, lo vedi scomparire nell’autobus vuoto e ritorni al tuo smart working.

Appena salito a bordo il vecchio sussulta, per un momento è sicuro di aver dimenticato a casa la cartellina col salvacondotto (chiama così l’autocertificazione) e la ricetta del medico, ma ce l’aveva sempre avuta in mano. Pensa che deve stare più attento, tra poco incrocerà la coincidenza col tram e dovrà cambiare mezzo per arrivare all’ospedale. Ripensa a quante volte aveva percorso quella stessa strada con sua moglie negli ultimi anni. Si sente solo nell’autobus vuoto, vorrebbe ci fosse il brusio della gente, magari trovare qualcuno con cui parlare del tempo, del governo, di qualsiasi cosa. Stringe più forte la cartellina.

Il resto del viaggio passa veloce, si è ripreso e scende alla fermata Policlinico con passo svelto. Ha deciso che in fin dei conti ha anche un motivo per essere felice,oggi: fatte le analisi potrà finalmente andare a trovarla dopo precisamente trentotto giorni di assenza. Ha il salvacondotto, il Verano è a sole due fermate dall’ospedale, e anche se ha dovuto rinunciare agli appuntamenti quotidiani questa è almeno un’occasione per tornare dalla sua Maria. Al solo pensiero il cuore gli batte forte in petto, per un attimo la vede di nuovo che passeggia sul lungotevere con le amiche, luminosa e semplice in quel sabato autunnale quando l’aveva vista per la prima volta. Sembra un’altra vita, pensa, però l’amore è sempre quello.

Perso nel passato quasi non si accorge di essere già davanti al centro prelievi. Sale le scale che portano all’accettazione, sta ansimando, deve fermarsi un secondo a prendere fiato prima di entrare in sala d’attesa. Il cuore non si è ancora calmato, sente una fitta al braccio, la cartellina gli cade a terra e lui proprio non riesce a raccoglierla. Un’infermiera di passaggio lo vede e lo fa sedere, gli porta i documenti, cerca di parlargli. Lui non la sente. “Non ora”, mormora con un filo di voce, “non ora”.

Quando si riscuote è sdraiato su una barella, uno strano apparecchio è collegato al suo petto con delle ventose ed emette suoni acuti a intervalli regolari. Un dottore insiste per fargli firmare dei fogli prima di entrare in sala operatoria. “Per fortuna l’infermiera che l’ha aiutata le ha misurato la pressione e ha capito che qualcosa non andava. Certo l’anestesia totale, alla sua età, è come lanciare una monetina, ma senza correre quel rischio può avere solo la certezza di non svegliarsi domattina”, sintetizza il medico con spirito ed efficacia. Il vecchio a quelle parole sembra ringiovanire di vent’anni. Si alza di scatto, litiga col medico, firma il foglio di dimissione, litiga di nuovo col medico ed è fuori.

E’ seduto sul solito muretto adesso, davanti alla tomba della sua Maria. Non sa dov’è finita la cartelletta. Si toglie i guanti e la mascherina, ormai inutili.
Le parla, sussurra. Poi tace.
Il sole tramonta tra i pini.

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