Il caso di Autostrade per l’Italia (ASPI), che si sta avviando a un suo probabile epilogo, ci insegna principalmente due cose: la prima, che in Italia le lungaggini burocratiche sono solo ed esclusivamente strumentali dal momento che vengono tutte sorpassate quando ci sono interessi politici in ballo, in particolare se questi ultimi sono di natura elettorale; fare affari con lo Stato italiano, negli ultimi decenni almeno, è da folli sconsiderati se non addirittura da persone particolarmente ingenue (per utilizzare un’espressione fortemente eufemistica rispetto a ciò che andrebbe detto). Lo Stato italiano ha sempre ragione su tutto, se ne infischia dei contratti cambiandone le condizioni in itinere e in modo arbitrario ogni qualvolta si presenti un’esigenza particolare e, se lo si contrasta, espropria e vende a proprio piacimento, non lasciando via di scampo. Ed è inutile rivolgersi ad un tribunale: se lo Stato vuole la tua testa, per una ragione elettorale o per un’altra o per oscuri e arcani interessi economici chiari soltanto ai capi-soviet che sempre in maggior numero affollano il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico, questo la avrà su un piatto d’argento prima ancora che tu possa spiegare la situazione al tuo avvocato, superando innanzitutto tutti quei tempi burocratici utilizzati continuamente come scusa e pretesto riguardo altre questioni, che spesso vanno a vantaggio e al servizio della comunità (vedesi la legge sulle unioni civili, uno dei record di tempo biblico, o banalmente e immediatamente l’erogazione dei fondi della CIS nel periodo pandemico, che alcuni cittadini da marzo l’hanno vista tra lo scorso e questo mese corrente), e, aspetto più scandaloso per la questione dal punto di vista della tenuta dello stato di diritto in questo Paese, lo scavalcamento totale dei tempi della giustizia, fondamentali per assicurare che gli effettivi responsabili paghino per le loro mancanze e colpe e che, nel contempo, vengano garantiti i diritti di tutti i coinvolti nel processo. Sarebbe superfluo dirlo in un Paese normale e non abitato da fette di elettorato costantemente con la bava alla bocca e il dito puntato sugli altri (soprattutto se questi altri hanno soldi e, in generale, successo), ma qui devo dirlo: anche un pluriomicida ha dei diritti, e rispettare i tempi della giustizia, aspettare le sentenze prima di gridare “al rogo!!” serve esattamente a tutelare questi diritti.

E come se non bastasse questo a destare preoccupazione, vi è anche il silenzio assordante da parte sia di una fetta importante della maggioranza, sia di tutta l’opposizione: si tratta di parti politiche che sostenevano una visione garantista della giustizia, facendone la propria bandiera. È evidente che certi personaggi sono garantisti soltanto quando la spada della giustizia italiana punzecchia loro e i loro affari, ma quando tocca ad altri, soprattutto se questi altri sono impopolari, rimangono in religioso silenzio. E oltre che garantisti, ricordo che alcuni di questi si professavano anche liberali, e da liberali non hanno detto una parola su quella che sembra configurarsi (“salvo intese”) come una nazionalizzazione, finanziata attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (CDP), ovvero il medio e piccolo risparmio degli italiani. Sì, proprio quel risparmio che fa tanto gola ad alcuni politici e che rispunta fuori ogni tanto da qualche intervista o dibattito pubblico per giustificare, a pensar bene in modo fantasioso, a pensar male in modo autarchico e totalitario, una sorta di sostenibilità dell’indebitamento sconsiderato dell’Italia. Ovviamente tutto questo è falso, ma viste le percentuali dei voti una bella percentuale di italiani non tiene ai propri risparmi o non ne intende fare (e in quest’ultimo caso, anche ammettendo l’assurdità, sarebbe divertente vedere quanto sarebbe sostenibile l’indebitamento venendo meno tutto questo risparmio). I miei più sentiti complimenti, comunque, vanno a questi personaggi.

Queste considerazioni, si badi bene, non vengono fatte per simpatie verso i privati o per difendere uno stato di cose che è sicuramente più che discutibile, tuttavia non è questo il luogo per metterle in discussione poiché il punto di questo pezzo è un altro: non si parla, infatti, di quanto fosse vantaggioso o meno il contratto per le rispettive parti (anche perché lo Stato ci si è pulito il naso col contratto, per non dire altro), se era fatto bene, se era funzionale ecc. La questione, infatti, è squisitamente di principio, poiché in questa vicenda (che non è l’unica purtroppo) vengono meno i fondamenti stessi dello stato di diritto e la base del contratto sociale. Infatti, se Thomas Hobbes dall’alto del suo assolutismo scriveva nel Leviatano che “pacta sunt servanda”, ovvero che “bisogna onorare i patti” intesi proprio come “contratti”, fondamento essenziale del diritto in quanto diretta emanazione della ragione, lo Stato italiano sembra non comprendere appieno l’importanza di questo principio, poiché pur essendo al di sopra delle parti e generalmente superiore ha dei principi a cui attenersi e che è tenuto ad onorare, pena il suo sgretolamento, causato dal venir meno del patto sociale. Ad uscirne più danneggiato dalla vicenda, infatti, contrariamente a quanto pensa quella parte della maggioranza di governo che continua a sbandierare questa prova di forza sicuramente non necessaria come una grande vittoria contro i ricconi che toglierebbero il pane di bocca al popolo affamato, è proprio lo Stato, che continua la sua opera di scoraggiamento dell’iniziativa economica privata al suo interno e che si erge sempre più minaccioso verso chi ha, suo malgrado ormai, stipulato contratti con esso. Non ci si lamenti, poi, della fuga degli investimenti dal Paese, ennesimo piagnisteo tutto italiano da associare a quello sulla fuga dei “cervelli” e a quello sulle delocalizzazioni delle aziende all’estero, poiché si farebbe (ancora una volta) la figura del bambino che rompe il giocattolo e che poi piange perché non può più giocarci.

Il fatto è che siamo pesantemente miopi come Paese e non ci rendiamo conto che se fuggono gli investimenti i costi di beni e servizi graveranno ancora di più sulle spalle dei contribuenti, il che equivale o a tagli delle erogazioni di questi ultimi o ad ulteriori aumenti nella pressione fiscale: o li paghiamo di tasca nostra, o semplicemente non li riceviamo più, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca come sembrano, invece, proclamare gli ultimi governi susseguitisi negli anni. E se aggiungiamo che siamo un Paese che vota chi promette aumenti di pensione e pensionamenti anticipati, per fare soltanto un esempio immediato, il quadro del problema appare chiaro nella sua insostenibilità. E no, non si può chiedere all’Unione Europea di soddisfare i nostri capricci con capitali cash e da erogare subito e senza condizioni, in particolar modo se poi dai il tuo voto a chi vorrebbe uscire dall’Unione e dall’Area Euro.

Insomma, il nostro Paese sta vivendo una drammatica crisi di credibilità, che sta cercando di riscattare non con responsabilità, riforme e lavoro per migliorare se stesso e rendersi sostenibile, ma con il braccio di ferro, come fosse un ragazzino in piena crisi ormonale che fa di tutto e passa sopra ogni cosa e ogni principio per farsi bello con gli amici o con la ragazza o il ragazzo di cui si è invaghito, in una disperata ricerca di approvazione che sembra avere da una parte della popolazione i cui desideri e le cui prospettive restano a me abbastanza oscure e imperscrutabili, ma che sono l’ago della bilancia politica di questo Paese; e i politici, tra chi è davvero persuaso delle menzogne e assurdità che dice ogni giorno e chi è in qualche modo obbligato a pronunciarle per restare in carriera a servire il Paese, a questa parte parlano, dimenticando quella parte, seppur piccola ma presente, disposta a fare dei sacrifici e a lavorare duramente per risollevare l’Italia, che ha a cuore il suo benessere e che è la prima a soffrire enormemente e a provare vergogna quando vede il proprio Presidente del Consiglio in giro per l’Europa col cappello in mano a chiedere soldi e a baciare mani.

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