Il cinema contemporaneo è rimasto fedele alle sue origini?

Non è una domanda retorica, come si potrebbe pensare, ma richiede un processo analitico che pone le sue basi nei primi anni di sviluppo dell’industria cinematografica.

Le inquadrature, il montaggio, le performance attoriali sono solo alcuni degli esempi più tangibili dell’evoluzionismo del linguaggio filmico. E come potrebbe essere altrimenti? È impensabile che in oltre un secolo di vita il mondo del cinema non abbia avuto una sua evoluzione, rimanendo incanalato in certi canoni prestabiliti. Ogni regista che si rispetti ha avuto un impatto nell’ambito evolutivo della formazione cinematografica sfruttando, nell’epoca in cui è vissuto, i mezzi a sua disposizione.

L’uso comunicativo delle inquadrature

Agli albori del cinema l’inquadratura, ad esempio, aveva un suo proprio significato. A seconda di come si impiegava la camera da presa, infatti, come nelle presentazioni di certi personaggi, il regista poteva dare fin da subito allo spettatore un’idea del ruolo che questi stessero interpretando. Alla rappresentazione centrale, ordinaria, si alternano infatti una serie pressoché infinita di piani di ripresa, dettati da diversi parametri (altezza, angolazione, inclinazione). Se l’inquadratura dall’alto implicava debolezza, costrizione, la ripresa dal basso conferiva potenza, superiorità, minacciosità e, spesso, era utilizzata per presentare i personaggi negativi del film.

Si pensi alla scena che precede l’omicidio di Marion in Psycho, il capolavoro di Hitchcock (1960); una scena il cui peso è totalmente retto dalla minaccia che grava sulla donna. Si tratta di una minaccia non comunicata dall’attore attraverso parole o atteggiamenti, ma evidenziata dalla differenza tra le inquadrature riservate ai due personaggi. Se, infatti, Marion è al centro della camera da presa e la sua immagine è illuminata in modo omogeneo, Norman, al contrario, è inquadrato dal basso, di profilo, decentrato e oscurato da ombre che strisciano sulle pareti. Lo spettatore più attento riuscirà, grazie a questi accorgimenti della regia, a sviscerare fin da subito il mistero che si cela dietro il famoso omicidio della doccia.

Il linguaggio del montaggio

Come l’inquadratura, anche il montaggio aveva un suo scopo predefinito. Ancora all’epoca di Hitchcock, ma soprattutto nei decenni precedenti, esso serviva per dare maggiori informazioni allo spettatore, o puntando su un particolare dettaglio, di cui solo qualche personaggio era a conoscenza (un oggetto, ad esempio), o per alimentare la tensione nello spettatore. A cosa mi sto riferendo? È presto detto. A questo proposito, prendo a mo’ d’esempio la scena iniziale di M, il mostro di Düsseldorf (1931). Già il titolo suggerisce la presenza di un uomo, probabilmente un omicida, che si aggira per la città e che, come scopriremo nei primi istanti di visione del film, rapisce ed uccide bambini.

La scena si apre con una donna intenta a cucinare, per poi spostarsi immediatamente su un orologio a muro che segna le dodici, suggerendo un’inquadratura soggettiva. La bocca della donna è increspata da un sorriso di cui lo spettatore non conosce il motivo. Potrebbe indovinarlo grazie alla scena successiva, che vede protagonisti un gruppo di bambini all’uscita da scuola, accompagnati dal suono delle campane che sembrano suggerire una certa continuità con la sequenza precedente. Il montaggio, qui alternato tra le due scene, dà maggiori informazioni allo spettatore rispetto a ogni altro personaggio presente sulla scena.

Tuttavia, la caratteristica più stimolante di questo incipit è rappresentata dalla sequenza successiva: qui troviamo una bambina che gioca a palla, intenta a tornare a casa. Per un momento l’inquadratura si blocca, si ferma su un manifesto, e solo l’ombra della palla resta visibile. Ad un tratto, ecco profilarsi l’immagine di un uomo, o meglio la sua ombra, che si mette a parlare con la bambina e poi si china minacciosamente su di lei. A questo punto, il montaggio ci riporta a casa della donna, che lo spettatore, presumibilmente, identificherà come la madre della piccola. Ora, ella guarda nuovamente l’orologio, che segna inesorabilmente le tredici e quindici. Non c’è più nessun sorriso sul suo volto, ma traspare paura, ansia, timore; e lo spettatore riesce bene a comprenderne il motivo. Il montaggio ha qui giocato un ruolo fondamentale al fine di accrescere al massimo la tensione emotiva.

Costruire la scena, tra “effetto sorpresa” e costruzione della “suspence”

Proprio Hitchcock, in un famoso dialogo con Truffaut, parlava della differenza tra suspense e colpo di scena.

Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutto ad un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo alla suspence. La bomba è sotto al tavolo e lo spettatore sa che essa esploderà a breve; la stessa conversazione insignificante di poc’anzi diventa, d’un tratto, molto interessante perché il pubblico partecipa, complice, alla scena. Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici secondi di sorpresa, nel secondo quindici minuti di suspense. La conclusione di tutto questo è che bisogna informare il pubblico ogni volta che è possibile, tranne quando la sorpresa è un twist, cioè quando una conclusione imprevista costituisce il sale dell’aneddoto.

Linguaggio del cinema contemporaneo

Questo discorso era fondante del cinema di quegli anni. E non parlo solo di alcuni generi (il thriller, ad esempio), ma della stragrande maggioranza di casi. Eppure, negli ultimi decenni questo modo di fare film è cambiato, in certi casi, radicalmente. Certo, la causa è da riscontrarsi nell’evoluzione tecnologica che ha permesso la produzione di alcuni contenuti che, anche solo fino a pochi anni fa, erano impensabili.

Non mi riferisco tanto al genere di fantascienza, che già aveva dalla sua grandi capolavori fin dagli anni ‘sessanta (Terrore nello spazio, 1965), ma intendo lo sviluppo del digitale e, soprattutto, il nuovo interesse del pubblico che matura, rispetto a racconti ben definiti e comprensibili da tutti, storie vertiginose, dalla potente narrazione, in cui anche la performance attoriale passa in secondo piano. È il caso di Il signore degli anelli, di Matrix, di Pulp Fiction e molti altri.

Una volta dato allo spettatore l’oggetto della ricerca dell’eroe, il regista può dar vita ad una narrazione complessa, profonda, anche intricata, in cui i giochi di inquadrature non regalano più geniali intuizioni per lo spettatore, né il montaggio rende giustizia per sequenze che meriterebbero maggiore enfasi, ma tutto è declinato verso l’azione, la spettacolarità, i colpi di scena, esattamente il contrario di quanto affermava Hitchcock. Ma non è una colpa. Il cinema contemporaneo è figlio del suo tempo, ha prodotto capolavori fuori dall’immaginario collettivo (i film che ho citato lo sono senza dubbio) e ha permesso la produzione di contenuti che, come detto, erano impensabili.

Recitazione: Immedesimazione o Improvvisazione?

Così come il contenuto tecnico, anche quello artistico, naturalmente, ha subito dei grandi cambiamenti. Parlare della performance attoriale in senso generale sarebbe ridondante. La recitazione è sempre stata alla base del racconto filmico, garantendo immedesimazione e profondità emotiva. Ma ciò che mi interessa mostrare è la grande differenza di recitazione tipica degli anni del cinema moderno rispetto a quella del mondo contemporaneo. Alle origini del Novecento l’unico metodo recitativo riconosciuto come base dello sviluppo del personaggio era l’immedesimazione. All’attore non veniva dato ampio margine di manovra, ma egli doveva ricalcare, sulla falsariga della sceneggiatura, le movenze, le espressioni e il tono di voce del personaggio che andava ad interpretare. Perfino lo stile era canonico, teatrale, e sembrava quasi che gli attori interagissero tra loro come su un palcoscenico (i piani sequenza di moltissimi film del tempo la dicono lunga su questo aspetto). Non voglio criticare quel modo di recitare, anzi. A mio avviso, sebbene lasciasse poco spazio all’improvvisazione dell’attore, cosa ormai riconosciuta come un punto di forza in quanto sintomo di versatilità, era la base fondante per l’immedesimazione del pubblico verso un dato personaggio, che restava confinato ad un determinato genere (John Wayne al western, per esempio; Jack Lemmon e Walter Matthau alla commedia, ecc.).

L’eleganza del cinema delle origini

Ecco che il mondo cinematografico ha una sua origine, una sua evoluzione storica. Essa può essere raccontata seguendo i mutamenti delle singole branche del prodotto filmico, sia a livello tecnico che artistico, che si sviluppano al ritmo delle trasformazioni sociali, dei cambiamenti economici e nell’introduzione delle nuove tecnologiche, consentendo una produzione diversificata, estremamente più ampia, producendo, di conseguenza, una disparità sempre più grande a livello artistico.

Ma il cinema, nonostante tutte queste differenze, non può prescindere dalle sue origini, dalla sua base, a cui deve sempre e comunque fare riferimento. È impensabile, poiché risulterà estremamente complesso, credere di poter realizzare un film partendo da una conoscenza limitata agli ultimi decenni. È fondamentale, al contrario, saper fare tesoro delle lezioni che il cinema “primitivo” può ancora darci; un cinema in cui la spettacolarità e i colpi di scena non erano resi da mastodontici effetti speciali, dove non servivano budget immensi per la produzione di un film, ma bastava una buona idea, semplice, diretta e facilmente realizzabile.

Contributo di Daniele De Sanctis.

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