E se il capitalismo fosse morto e non ce ne fossimo neppure accorti? Come il grande capitale ha indebolito la politica e, (paradossalmente), la concorrenza stessa…
Nonostante innumerevoli pensatori, scrittori, attivisti e politici abbiano sperato e invocato da un paio di secoli a questa parte la fine del capitalismo, esso sembra godere ancora di buona salute.
Eppure, un’attenta analisi di ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi vent’anni, potrebbe parzialmente contraddire un’impressione così evidente…
Per comprendere di conseguenza come e perché il capitalismo potrebbe aver tradito sé stesso, è opportuno tuttavia fare un passo indietro e riepilogare brevemente alcuni concetti.
Innanzitutto, è opportuno rispondere a due domande: che cos’è il capitalismo e su cosa si basa?
In economia, il capitalismo è un sistema economico in cui imprese e/o privati cittadini possiedono i mezzi di produzione e si servono degli stessi per la produzione di beni e servizi al fine di generare un profitto attraverso la vendita diretta o indiretta sul mercato. Tale produzione, basata sulla domanda e sull’offerta nel mercato generale di tali prodotti, è nota come economia di mercato.
I presupposti del capitalismo sono quindi i seguenti: i mezzi di produzione sono di proprietà privata, il lavoro viene offerto in cambio di un salario e i lavoratori possono liberamente cambiare occupazione a seconda dell’offerta, l’obiettivo primario è l’accumulazione del capitale e il mercato riveste una posizione centrale nei meccanismi di scambio.
Con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il disgregamento dell’URRS, il mondo credette che il capitalismo a trazione statunitense avrebbe conquistato tutto e tutti e che di conseguenza avrebbe garantito pace e prosperità.
Purtroppo, non è stato così e la storia non finì per evidenti ragioni in discarica.
La bolla del dot-com, l’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, la crisi dei mutui sub-prime, la crisi del debito europeo, il Covid-19, la Cina e la guerra in Ucraina hanno dimostrato infatti che il percorso della civiltà non sarebbe potuto finire con la fine della (prima)guerra fredda.
Certo, ad una prima e approssimativa osservazione, gli eventi appena ricordati non sembrano aver scalfito l’essenza del capitalismo ma qualcosa sembra tuttavia non aver risposto positivamente all’avvento della globalizzazione: la capacità di creare innovazione dal basso.
In un certo senso, la storia degli ultimi vent’anni sembra aver infatti rallentato e addirittura castrato una tendenza democratica e ascendente, un principio essenziale e fondamentale del capitalismo stesso.
Qualcuno potrebbe comodamente associare la crisi della democrazia al fenomeno appena osservato e forse, non sbaglierebbe; in ogni caso, tentare di riassumere tutti quei fatti che hanno oggettivamente indebolito le classi medie in Occidente potrebbe essere impresa a dir poco complicata.
In un certo senso, la globalizzazione e lo sviluppo di tecnologie sempre più innovative sono stati episodi che sì, da un lato hanno agevolato chi ha saputo sfruttare determinate opportunità ma dall’altro lato hanno posto problemi che nessuno sembrava aver previsto.
Se l’e-commerce, ad esempio, ha offerto a molti la possibilità di incontrare nuovi clienti, chi ha proposto la possibilità di vendere on-line ha dovuto confrontarsi con un gigante come Amazon che ha vinto in partenza giocando al ribasso.
Occasioni sprecate? Non proprio: oserei scrivere “occasioni non completamente sviluppate”.
La crescita esponenziale di determinate aziende ha offerto numerosi posti di lavoro, certo, ma a che prezzo? Spesso, molti di quei posti di lavoro sono stati creati in condizioni sociali difficili e chi ha potuto ne ha approfittato.
Sarebbe toccato, forse, alla politica (non solo in Italia) pretendere trasparenza e vincoli ma nel suo piegarsi alla tecnica (e spesso alla finanza, non casualmente) ha perso purtroppo più di un motivo per essere credibile.
In altre parole: lo sviluppo delle multinazionali ha decentralizzato il ruolo del mercato e ciò che un tempo faceva lo Stato in economie di stampo dirigista ora viene fatto dal grande capitale.
Le storie al limite del romanticismo che ci hanno raccontato di esperienze di riscatto sociale sono ancora possibili?
Le storie che hanno visto creare dei (quasi) perfetti punti di congiunzione tra impresa e bellezza sono ancora verosimili?
In un contesto globale sempre più contradditorio dove quelle che possono essere soluzioni si rivelano essere spesso “bare”, può esistere ancora qualcuno che sappia trarre effettivo giovamento da un’attività imprenditoriale?
Ancora una volta, credo che dovrebbe essere la politica a rispondere alle domande appena poste ma a giudicare il percorso intellettualmente misero percorso dalla stessa in Occidente sembra che, ahimè, non sarà semplice riproporre innovazioni dal basso con una frequenza degna di un sistema effettivamente competitivo.
Io stesso ho seguito con interesse vicende e percorsi a dir poco affascinanti nella storia delle imprese ma oggi, al netto di ciò che è stato, non posso esimermi a mia volta dalla speranza di vedere qualcosa di diverso intorno a me… Qualcosa di nuovamente sorprendente ed effettivamente vicino ad un criterio umanistico troppo spesso semplificato.
Fare impresa è un’esperienza a dir poco entusiasmante e come già ribadito c’è sempre da imparare (nel “bene” e nel “male”) da chi ha già costruito qualcosa di tangibile in passato ma certo, tutto sarebbe diverso se, in conclusione, la storia fosse (veramente) “magistra vitae” dove certe dinamiche non sono semplicemente osservate…
Classe 1994, lettore vorace dall’età di sei anni e autore dei romanzi “L’alba di sangue” e “Il regno di Romolo”.
Di me hanno detto che sono un “egocentrico” ma non ho ancora capito perché.
Credo di avere tuttavia molto in comune con i liberali di una volta e di essere un insaziabile ricercatore di novità.
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