In questo capitolo ripercorreremo la storia dei partiti in Italia e come la democrazia rappresentativa ha iniziato a vacillare.

Ma esiste veramente un pericolo per la democrazia in Italia e in Occidente?

Prima di continuare il nostro viaggio nel mondo del pensiero liberale e anarchico, credo sia opportuno (tentare) di rispondere a questa domanda così difficile.

In effetti, esistono alcuni aspetti di tensione che non possono lasciare indifferenti e il primo riguarda proprio il ruolo che hanno ancora i partiti in Italia.

Fin dall’inizio della nostra storia repubblicana, i partiti hanno infatti avuto un ruolo centrale nell’esercizio della vita politica.

Ma quali sono stati i partiti più importanti dopo la fine del Fascismo?

Le due principali forze che si sono contrastate per il controllo dell’anima del paese fin dal 1946, sono state la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano.

Per comprendere però cosa abbiano rappresentato questi due importanti partiti, è opportuno tenere a mente il contesto geopolitico internazionale venutosi a creare dopo la fine dei regimi dittatoriali in Europa: un contesto dove il terreno di scontro aveva assunto un risvolto più ideologico e aveva iniziato pertanto a contrapporre la NATO da una parte ai paesi aderenti al patto di Varsavia dall’altra.

In Italia, paese strategicamente importantissimo, lo scontro tra le due principali super potenze del tempo è stato quindi interpretato dai due partiti citati e se la Democrazia Cristiana ha perciò

svolto il ruolo di garante delle istanze non solo dei cattolici ma anche di quella borghesia che si riconosceva nei valori di un Occidente liberale, il Partico Comunista Italiano si è proposto nel ruolo di rappresentare tutte quelle ambizioni inespresse in seno ad un proletariato che guardava con ottimismo alle speranze proposte dalla dottrina comunista.

Tornando brevemente sul ruolo fondamentale dell’Italia nello scacchiere internazionale, è necessario a questo punto fare una nuova considerazione e cercare di ricordare quanto sarebbe stato drammatico per la NATO se in Italia avesse prevalso il P.C.I.

Nonostante la crescita economica degli anni ’50 e ’60, l’Italia si è dimostrata essere infatti fin da subito una democrazia incompleta dove alla Democrazia Cristiana non si sarebbe potuta alternare nessun’altra forza politica.

Se il P.C.I avesse appunto formato un governo sarebbe stato inevitabile aderire al blocco promosso dall’U.R.S.S. per questo, nonostante la Democrazia Cristiana sia stata attraversata da numerose correnti non ha mai avuto un ruolo all’opposizione.

Con la fine del c.d. “boom economico”, la tensione sociale in Italia si è cristallizzata in quella che gli storici hanno definito “la strategia della tensione”. Ma di cosa si è trattato?

L’espressione “strategia della tensione” è in realtà inglese (“strategy of tension”) e fu coniata dal settimanale britannico “The observer”.

Apparve per la prima volta in un articolo del giornalista Leslie Finer del 7 dicembre 1969, solo cinque giorni prima della strage di piazza Fontana. Nello testo, (basato su alcuni documenti segreti dell’MI6 sottratti all’allora ambasciatore greco in Italia), Finer parla di una strategia politico-militare degli U.S.A. tesa ad orientare certi governi democratici di alcune nazioni dell’area mediterranea allo scopo di favorire l’instaurazione di regimi e dittature militari. Come? Attraverso una serie di atti terroristici.

Nella fattispecie dell’Italia, sempre secondo il giornalista inglese, sarebbe stato ideato e adottato un piano volto ad innalzare il livello dello scontro tra le forze sociali, (già in atto a quel tempo), con l’obiettivo di imporre una chiara svolta politica reazionaria.

Il movente principale della strategia della tensione sarebbe stato, in buona sostanza, quello di destabilizzare la situazione politica italiana.

In tale ottica, tra i moventi di tale strategia, (soprattutto in Italia e nel quadro della c.d. “guerra fredda”), ci sarebbe stato quello di influenzare il sistema politico democratico, rendendo instabile la democrazia e bloccando il progressivo spostamento dell’asse politico e governativo verso le forze di estrema sinistra, (che all’indomani del Sessantotto e dell’Autunno caldo ricordiamo avevano migliorato le loro condizioni e rafforzato il loro ruolo nella società italiana…)

Sulla stagione delle stragi, non si è, ahinoi, mai fatta chiarezza ma al netto di tutto questo, non è possibile negare quanto inesistente sia stata l’alternanza al governo del paese.

Con la fine della stagione delle stragi e l’inizio dei “ruggenti” anni ’80 la situazione, pur essendo migliorata sul piano della sicurezza, non è tuttavia cambiata sul piano politico e la Democrazia Cristiana ha pertanto continuato a dominare la scena politica iniziando a “puntellare” la propria maggioranza grazie alla nascita del c.d. “Pentapartito”: un’alleanza eterogena di forze (che comprendeva anche i socialisti).

La centralità dell’appena citato “Pentapartito” è terminata solo nel 1992 quando è iniziata Tangentopoli: un’inchiesta del pool milanese di “Mani pulite” che ha scoperchiato un ramificato sistema di corruzione che coinvolgeva politica, imprenditoria e pubblica amministrazione.

Crollato il muro di Berlino nel 1989, e finita l’epoca dello scontro con il Comunismo sovietico, il mondo ha perciò iniziato a conoscere una nuova era: un’era dove la Democrazia Cristiana, forse non serviva più…

I fatti che hanno seguito la fine di “Tangentopoli” sono storia recente che conosciamo tutti ma che vale comunque la pena cercare di ricordare in poche righe perché sono comunque centrali per capire se la nostra democrazia corra davvero un pericolo…

Come abbiamo visto, dal 1946 al 1992 non vi è mai stata una reale alternanza tra forze politiche contrapposte (dal 1946 al 1992, l’Italia ha visto dieci legislature, ben 48 governi e 18 diversi Presidenti del Consiglio), ma cosa è successo dopo il 1992?

Dopo un relativo periodo di instabilità, nel 1994 Silvio Berlusconi “scende in campo”, rovescia il tavolo e vince le elezioni grazie ad una nuova maggioranza che si richiama ai valori del liberalismo democratico.

Al “Cavaliere” si contrapporranno negli anni diverse forze di sinistra fino al 2008 quando il sogno di fare dell’Italia una democrazia matura raggiunge l’apice grazie ad un effettivo confronto tra due distinti blocchi politici: il centrodestra e il centrosinistra guidato dal Partito Democratico.

Con le dimissioni del governo nel 2011 ha inizio per l’Italia un periodo difficile: all’orizzonte si fa avanti lo spettro della recessione e la crisi dell’Euro e nessuno sembra godere di abbastanza credibilità per affrontare la sfida, tranne un uomo: Mario Monti.

Ex direttore della Bocconi e stimato accademico, Mario Monti forma un governo tecnico, un governo cioè composto da figure non politiche e pone in essere quindi una serie di riforme considerate necessarie.

La figura tecnica già era stata conosciuta dagli italiani ai tempi di Dini e Amato agli inizi degli anni ‘90 ma nessuno aveva prima di Monti posto l’accento sul tema della “sospensione della democrazia”.

Ciò che con Monti è emerso, infatti, è stato uno scenario inedito dove i politici non si sono saputi rendere attori attivi nel processo di trasformazione del paese e del paese in Europa.

Come conseguenza dell’inettitudine dell’elettorato passivo si è quindi reso necessario l’avvento di un “dictator” che potesse togliere “le castagne del fuoco” per evitare ai politici, forse, cattive figure…

Già nel 2012, si parlò di “attentato alla democrazia” e di “pressanti diktat europei” ma sul tema, prometto, torneremo a breve…

Dopo la fine del governo Monti si tornò a votare e l’avvento del M5S turbò una seconda volta gli equilibri.

Da allora, abbiamo ricominciato a vivere infatti una stagione burrascosa fatta di giravolte e strane alleanze che non hanno mai portato ad avere governi forti e in grado di gestire un ampio programma di riforme…

Non a caso, a chi è stato assegnato il compito di formare un governo quando la situazione si è resa instabile per l’ennesima volta? A Mario Draghi, un nuovo tecnico, un nuovo “dictator”.

Se esista o meno un complotto internazionale ai danni dell’Italia, questo non lo so.

Se sia stata o meno posta in essere, dunque, una nuova “strategia della tensione” questo non lo so.

Ciò che so, e che ho visto, è che quando la politica non sa lavorare, le forze in campo spingono affinché la situazione si risolva con l’intervento di un “tecnico”.

E’ vero, un governo “tecnico” è pur sempre un governo che si insedia nel pieno rispetto della Costituzione perché si sottopone al voto di fiducia delle Camere (art. 94 della Costituzione) ma difficilmente, esso rappresenta una reale manifestazione della volontà popolare.

Nei sistemi parlamentari come il nostro, l’elettorato attivo non elegge il Presidente del Consiglio dei ministri ma il Parlamento e ciò che si crea in Parlamento è come una sorta di “fotografia” dell’opinione popolare che con il passare del tempo sbiadisce.

Quante cose sono cambiate rispetto al 2018? E soprattutto: quale maggioranza rappresenta effettivamente il governo Draghi? Una maggioranza costellata di partiti che in realtà non hanno nulla in comune sul piano politico?

Certo, la maggioranza che sostiene Mario Draghi è una maggioranza che si impegna per la buona riuscita del piano vaccinale ma cosa dire del c.d. “Green pass”? Può un governo che, come abbiamo visto, non rappresenta un’effettiva volontà popolare adottare una misura così fortemente dibattuta? E può un governo siffatto ricorrere al voto di fiducia su questioni che forse, dovrebbero promuovere delle realtà politiche uscite vincitrici da una competizione elettorale? (nda: Esistono tre (3) tipi di fiducia:

1) Su mozioni o risoluzioni, (tra cui quelle utilizzate per sancire il sostegno parlamentare alla nascita di ogni nuovo Esecutivo);

2) Su mozioni di sfiducia nei confronti del Governo o di singoli ministri;

3)Su specifici progetti di legge considerati decisi per l’attuazione del programma di Governo.

Proprio quest’ultima tipologia, la più ricorrente, è diventata con il tempo un elemento molto controverso nel dibattito parlamentare. Non essendo normata in Costituzione, il suo funzionamento è disciplinato dai regolamenti interni delle camere, che ne stabiliscono pure i limiti: “La questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari ed in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto”).

La questione, nello specifico, è quindi questa: oltre la Costituzione, esiste anche un principio di buon gusto istituzionale che dovrebbe impedire ad un governo nato lontano da un risultato elettorale di “forzare la mano” in Parlamento? Personalmente credo di sì.

Esiste in conclusione una minaccia per la democrazia in Italia?

Se guardiamo la questione sotto la lente istituzionale, credo sia necessaria una riflessione non di poco conto sul fatto che non esista né una legge elettorale capace di garantire una maggioranza né una cultura politica tale per cui si possano (ri)creare i presupposti per cui i partiti tornino ad essere dei decisori.

La perdita di autorevolezza dei partiti dopo Tangentopoli e la costante decadenza culturale dei suoi membri non hanno aiutato a recuperare il vuoto formatosi tra coloro che dovevano incarnare i valori della democrazia rappresentativa e il popolo.

Per evidenti ragioni, pertanto, i cittadini hanno cessato di avere fiducia nei partiti ed essi sono diventate scatole sempre più vuote (perfette rappresentazioni di quell’assioma contemporaneo dove “apparire è più importante di essere”).

Un tempo, i partiti avevano un forte radicamento sui territori e promuovevano delle scuole non solo politiche ma anche sociali (il P.C.I. ad esempio, ha promosso nelle sue sezioni dei corsi per alfabetizzare tutti quei cittadini che non avevano potuto imparare a leggere e scrivere).

Nel corso di un curioso scambio di opinioni con un mio amico che insegna storia e filosofia, mi è capitato di notare come recentemente mi sia capitato di concordare con personalità politiche e artistiche che fino ad un anno fa non avrei supportato.

Alla luce di questa ultima osservazione non ho potuto fare a meno di chiedermi se l’evoluzione della democrazia non potesse passare (anche) da questa insolita novità: cioè dalla rottura dei vecchi schieramenti e dall’apertura verso nuove soluzioni più pratiche.

Sarà possibile immaginare i partiti domani come realtà civiche? Realtà slegate da ideologie ma ancorate a idee concrete? Sarà possibile immaginare di conseguenza i partiti del domani come realtà più solide che si contrappongono nel merito di questioni più tangibili? Sarà possibile, in conclusione, vedere i partiti del domani lavorare ad un salto culturale che porti alla mediazione e alla libera scelta nei confronti di tematiche scottanti come, ad esempio, l’integrazione di nuove culture?

Forse no. Per due ragioni molto semplici: l’appiattimento del linguaggio e l’autoproclamazione da parte di un solo pensiero come del “pensiero migliore”.

Come è stato evidenziato su Comunicato Psi da 900 professionisti del settore della psicologia e della psichiatria, per evitare le conseguenze psicologiche (e sociali) che si sono aperte davanti a noi a causa di un’epidemia storica, occorre “ripristinare una comunicazione democratica, pluralistica, libera e di confronto”.

Secondo gli psicologi, “Il primum movens di tutte le situazioni psicopatologiche manifestatesi è rappresentato dal binomio perdita di speranza/paura: se la comunicazione reitera incessantemente e monocraticamente contenuti terrorizzanti, stigmatizzando punti di non ritorno reali o fantasmatici, in automatico si ingenerano tali vissuti che fungono da trigger per evoluzioni patologiche e psicosociali gravissime.

Il ripristino di una comunicazione realmente pluralistica, dove le voci fuori da quello che appare un coro autorizzato (spesso anche molto differente da quello di cori autorizzati di altri paesi), darebbe la possibilità di poter confrontare differenti ipotesi di realtà, differenti visioni future e differenti sviluppi di vita possibili per fronteggiare scenari profetizzati come apocalittici ed inevitabili.

Allo stato attuale l’espressione di un’opinione non accettata dal mainstream non appare praticabile senza ritorsioni, minacce o pubbliche gogne mediatiche: una voce dissonante viene inevitabilmente bollata come fake news o complottismo, immediatamente aggredita e processata non attraverso seri e più che leciti dibattiti ma con ostracismo radicale a priori dal sistema mediatico, negando ogni forma di dubbio o di pensiero alternativo, a costo della menzogna o della delegittimazione personale. Si tratta propriamente di una devianza comunicativa che sta raggiungendo livelli estremamente pericolosi.

In un sistema democratico e garantito da una Costituzione tra le più belle del mondo, nessuno dovrebbe imporre come e dove attingere le informazioni, trattando di fatto il destinatario come un infante ingenuo e non in grado di intendere e di discernere. La risultante è un’informazione monocolore, che spinge sui pedali dell’uniformità di pensiero attraverso la paura, defraudando di fatto la ricchezza e l’evoluzione della cultura, e atrofizzando la libera ricerca ed espressione di sé.”.

Ancora una volta mi giunge in definitiva in soccorso “Il pensiero anarchico” (Filippo Pani e Salvo Vaccaro, Demetra) che mi ricorda cosa dovrebbe legare ogni confronto tra gli individui: l’educazione.

Certo, si può, come me, auspicare una rinascita del partito come di un’istituzione concreta e territoriale e valorizzare l’educazione; certo, si può come me, continuare a guardare alla democrazia con fiducia ma di sicuro non si può ignorare quel presupposto così squisitamente anarchico che vuole in una società di eguali persone egualmente (non ugualmente) educate ai valori del buon senso e del rispetto reciproco.

Comments to: Storia di un viaggio di fine estate: la lunga notte della democrazia.

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