Ma, il “Green pass” e il “Super Green pass” non violano direttamente solo l’art. 3 della Costituzione ma anche l’art. 4 della Costituzione:

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

Per comprendere come e perché il “Green pass” e il “Super Green pass” violano l’articolo 4 della Costituzione, è opportuno cominciare dalla fine: ossia dalle motivazioni a sostegno del “Green pass” e del “Super Green pass” per accedere ai luoghi di lavoro.

Quando si cominciò a chiedere il “Green pass” (base) per accedere ai posti di lavoro, da più parti si è difesa la legittima costituzionale del Green pass adducendo motivazioni apparentemente inconfutabili: il “Green pass” crea ambienti sicuri e di conseguenza favorisce ampiamente l’eliminazione di tutte quelle situazioni che bloccano o limitano la crescita professionale dell’individuo e la sua libertà di esprimere al meglio le proprie competenze…

Insomma, per alcune settimane si è davvero creduto che l’introduzione dell’obbligo del “Green pass” nell’ambiente di lavoro potesse rispondere positivamente, sia all’aspetto relativo la sicurezza, sia a quello concernente il miglioramento della vita lavorativa e a contribuire, in definitiva, alla sospirata normalizzazione dell’ambiente di lavoro dopo due lunghissimi anni di agonia… ma è stato davvero così?

Nelle settimane prima di Natale, l’ISS ha ampiamente dimostrato che l’efficacia del vaccino anti Covid-19 cala drasticamente dopo 6 mesi e come conseguenza di questa evidenza si è dimostrato che anche chi ha ricevuto due dosi di vaccino anti Covid-19 può contrarre la malattia e trasmetterla.

Certo, per questo, affermerà qualcuno, il “Green pass” ha una scadenza ma questa scadenza è basata su quali dati attualmente? Perché inizialmente il “Green pass” riconosciuto in seguito alla vaccinazione durava 9 mesi e poi la sua validità è stata abbassata a 6? (Se non è sperimentazione questa) …

Pochi giorni fa, giovedì 13 gennaio, L’EMA ha dichiarato quanto segue: “Avere troppa fretta nel rafforzare la campagna di vaccinazione al Covid-19 con richiami eccessivamente ravvicinati, potrebbe avere l’effetto opposto, ossia sovraccaricare la risposta immunitaria”.

Se così fosse, se richiami eccessivamente ravvicinati sovraccaricassero la risposta immunitaria, si potrebbe dunque ancora continuare a ritenere vincolante il “Super Green pass” per accedere ai luoghi di lavoro? (Considerando, ripeto, che questo non crea sempre e in termini assoluti luoghi effettivamente sicuri…)

Il “Super Green pass” non è un casco di protezione, né una cintura di sicurezza: è uno strumento profondamente vincolante che non garantendo una sicurezza definitiva rischia non solo di “sovraccaricare” la risposta immunitaria ma anche di compromettere la possibilità di esprimere serenamente la propria personalità.

In altre parole: il precetto costituzionale custodito dall’articolo 4 della Costituzione deve essere letto anche nel senso di favorire l’eliminazione di tutte quelle situazioni che bloccano o limitano la crescita professionale dell’individuo e la sua libertà di esprimere al meglio le proprie competenze.

Si, resta sempre il dubbio sulla condizione scientifica che potrebbe portare, ai sensi dell’art.2087 del Codice civile, i datori di lavoro a chiedere il “Super Green pass” ai propri dipendenti anche in assenza di uno specifico obbligo di legge ma questa condizione scientifica, torno sul punto, esiste?

Ad ora, le maggiori evidenze riscontrate ci dicono che il vaccino e quindi la detenzione del “Super Green pass” evita, nella maggior parte dei casi, un decorso pericoloso della malattia ma non abbiamo nessuna prova (anzi) che il vaccino e il “Super Green pass” limitino la diffusione del virus.        

Le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro possono quindi essere rafforzate continuando la promozione di dispositivi di protezione come le mascherine FFP2 senza un’imposizione de facto di un obbligo che non prevede adeguate coperture in materia di risarcimento in casi di effetti collaterali.

Il tema del “Super Green pass” sui luoghi di lavoro mette inoltre in dubbio anche un altro articolo della Costituzione, l’articolo 35:

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla lege nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero.”

In modo particolare, il “Green pass” e il “Super Green pass” violano direttamente il comma 1 dell’articolo appena citato.

I limiti sono infatti notevoli e per approfondirli è opportuno ripartire da una serie di osservazioni in materia di gestione dei dati personali.

Sia pure con difficoltà applicative, chiedendo il “Green pass” (base) per accedere nei luoghi di lavoro si è riusciti a salvaguardare un duplice principio: non deve essere il datore di lavoro (bensì il medico competente) a sapere qual è la situazione personale del lavoratore rispetto al Covid-19.

La ragione? Con il “Green pass” base, infatti, il datore di lavoro ha ricevuto fino ad ora un’informazione neutra, poiché il “Green pass” in questione poteva essere ottenuto anche mediante tamponi dall’esito negativo.

In parole povere: per il datore di lavoro sapere che un lavoratore aveva il “Green pass” non significava necessariamente avere la certezza che fosse vaccinato.

Con il “Super Green pass” non sarà però più così.

La verifica da parte del datore di lavoro porterà infatti alla conseguenza che ora il datore di lavoro saprà con certezza che chi non ha il “Green pass” valido appartiene ad una categoria ben specifica.

All’inizio del 2022, dopo la fortissima pressione legislativa e mediatica per la vaccinazione, il non essere vaccinati non è indicativo, infatti, solo di uno stato di salute: è un dato idoneo a rivelare opinioni e convinzioni.

Certo, le motivazioni e gli argomenti di questa posizione possono essere più o meno razionali e convincenti ma di tutta evidenza non appartengono più soltanto al campo delle scelte individuali rispetto ai trattamenti sanitari: hanno una valenza politica, sociale e oserei filosofica.

Dobbiamo domandarci quindi, con onestà intellettuale e ragionevolezza su cosa possa determinarsi oggi quel rischio di discriminazione che il senso stesso della protezione dei dati sensibili intende evitare. Questo è il punto.

Ma cosa prevede il GDPR? Quando e come un datore di lavoro può trattare dati sensibili su opinioni politiche o convinzioni personali dei lavoratori? La risposta non è semplice.

L’art. 9.2, lettera b) del GDPR dice che il trattamento di questi dati non è vietato se è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, (purché in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato).

L’art. 9.2, lettera g) aggiunge che il trattamento di questi dati non è vietato se necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, a patto che vi siano proporzionalità alla finalità perseguita, rispetto dell’essenza del diritto alla protezione dei dati e un’effettiva introduzione di misure appropriate e specifiche atte a tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.

Dunque, il GDPR non esclude che un datore di lavoro possa trattare dati sensibili dei dipendenti se ci sono ragioni legate al diritto del lavoro o motivi di interesse pubblico rilevante che lo giustificano.

Tuttavia, in entrambi i casi appena descritti, occorrono garanzie appropriate e queste garanzie devono essere definite dalla normativa nazionale sulla base di una serie di evidenze tutt’ora, come abbiamo già visto, assenti.

In Italia, il codice in materia di protezione dei dati personali del 2018 ha individuato all’art. 2-sexies una lunga serie di motivi di interesse pubblico rilevante che giustificano il trattamento di dati sensibili; fra questi sono compresi l’igiene e sicurezza del lavoro e la sicurezza o salute della popolazione.

Oltre all’esistenza di norme (come il decreto anti-Covid-19) che specificano i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico rilevante, occorre che ve ne siano altre che definiscono altresì misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato.

Agli articoli 2-quater e 2-septies, il codice in materia di protezione dei dati personali prevede che le garanzie appropriate per i dati sensibili debbano venire per tutti i dati sensibili da regole deontologiche promosse dal Garante; inoltre, per i dati genetici, biometrici e relativi alla salute, da misure di garanzia definite dal Garante.

Dunque, in Italia, non è affatto escluso che il Governo, di fronte a motivi di interesse pubblico rilevante, possa varare norme d’urgenzache impongono una raccolta di dati sensibili dei lavoratori da parte dei datori di lavoro.

Tuttavia, questo può e deve avvenire in un preciso sistema di pesi e contrappesi, dove i contrappesi dovrebbero essere definiti dalle regole deontologiche promosse dal Garante.

Fra le regole deontologiche affidate all’iniziativa del Garante (ma non ancora esistenti), l’art. 111 del codice in materia di protezione dei dati personali ne prevede di specifiche per trattamenti nell’ambito del rapporto di lavoro per finalità di assunzione, esecuzione del contratto di lavoro.

Tuttavia, c’è un problema, e non è un problema indifferente: come abbiamo appena sottolineato, queste regole deontologiche sul trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro (paradossalmente) non ci sono, perché il Garante (costretto da due anni a un impegno straordinario anche per impedire che i continui decreti d’urgenza dei governi entrino in conflitto con le norme privacy) non le ha ancora, di fatto, predisposte.

Attualmente, quindi, un datore di lavoro dovrebbe trattare dati su opinioni politiche e convinzioni personali dei lavoratori nel rispetto del regime transitorio definito dal provvedimento del Garante del 5 giugno 2019 recante le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati, provvedimento che produce effetti fino all’adozione, per le parti di pertinenza, delle regole deontologiche.

Cosa significa? Significa che, in base a questo provvedimento tuttora in vigore, il datore di lavoro può trattare dati che rivelano le convinzioni del lavoratore esclusivamente in caso di fruizione di permessi in occasione di festività religiose o per le modalità di erogazione dei servizi di mensa o, nei casi previsti dalla legge, per l’esercizio dell’obiezione di coscienza; certo, il datore di lavoro può  altresì trattare dati che rivelano le opinioni politiche del lavoratore ma esclusivamente ai fini della fruizione di permessi o di periodi di aspettativa riconosciuti dalla legge o, eventualmente, dai contratti collettivi anche aziendali nonché per consentire l’esercizio dei diritti sindacali.

Il meccanismo del decreto-legge 1/2022 viola, pertanto, il combinato disposto fra codice in materia di protezione dei dati personali e prescrizioni del Garante relative al trattamento di categorie particolari di dati.

Certo, poiché il trattamento avrà inizio il 15 febbraio, è possibile che il Garante effettui un’integrazione del provvedimento citato, includendovi questa casistica e legittimandola sul piano formale…ma…

Ma se questo accadrà non saremo certo di fronte a un intervento meditato, bensì di fronte all’ennesimo esercizio di paziente collaborazione del Garante nei confronti di un Governo che omette di consultarlo sui temi di sua competenza.

La verità è nell’equilibrio normativo fra il GDPR e il codice in materia di protezione dei dati personali e il datore di lavoro non andrebbe di conseguenza posto in condizione di sapere che un suo dipendente non vuole vaccinarsi. Purtroppo, però, considerati i fatti, la minoranza che non si vaccina è attualmente ritenuta ingiustamente dal Governo, dai media e da una cospicua maggioranza di chi si vaccina portatrice di danni collettivi e il fatto che il datore di lavoro conosca questa scelta del lavoratore (anzi, ne abbia un’evidenza oggettiva e documentale) può generare una discriminazione, magari non immediata, magari non evidente, ma difficilmente contrastabile.

Il tema, in conclusione non è l’“obbligo vaccinale”, (non solo), ma la reiterazione di un meccanismo dove la verifica di rispetto dell’“obbligo vaccinale” è sostanzialmente scaricata sui datori di lavoro.

Sono innegabili sia l’emergenza di salute pubblica sia la fondamentale necessità di adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.

Ciononostante, uno Stato che per ottenere i risultati appena ricordati coinvolge i datori di lavoro deputandoli a una verifica che tocca convinzioni personali e opinioni politiche dei lavoratori, implicitamente dichiara di non avere strumenti per controllare il rispetto delle nuove norme (col risultato di innescare dinamiche destinate a fare della minoranza un capro espiatorio).

In definitiva, il tema del “Super Green pass” per lavorare non pone semplicemente un problema formale di congruenza fra norme, ma anche un problema di trasparenza.

(Continua…)

Comments to: No grazie, i pass mi rendono pensieroso (parte seconda)…

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