Perché la negazione della storia e della complessità è un esercizio utile al potere ma non alla comprensione, alla democrazia e, naturalmente, alla pace.

“Purtroppo già nel mese di dicembre i russi dilagano accerchiando le divisioni posizionate più a est.”

Così parlò l’assessora (?) all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, la quale ha rievocato la battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943 con una circolare inviata alle scuole della regione.

L’obiettivo, ha affermato, era quello di promuovere “i valori della difesa della sovranità e l’etica della partecipazione civile che gli alpini incarnano”, peccato però che l’assessora (?) ha dimenticato di ricordare chi erano i nazisti, cosa è accaduto a Stalingrado e che la Wermacht perse quasi l’80 % delle proprie risorse belliche sul fronte orientale.

Nonostante il presidente dell’Associazione nazionale degli Alpini di Verona, Luciano Bertagnoli abbia ricordato che gli alpini, in Russia, combatterono contro uno stato sovrano perché le potenze dell’Asse avevano deciso di piegare l’Unione sovietica, il caso della signora Donazzan non è stato, tuttavia, isolato: nei giorni che hanno preceduto, infatti, la Giornata della Memoria più di un giornale ha riscritto la storia cercando di delegittimare il ruolo dei sovietici durante il secondo conflitto mondiale.

“Sono stati gli ucraini a liberare Auschwitz, non i russi” ha titolato “linkiesta” dimenticando che a liberare Auschwitz furono i sovietici, cioè i soldati di uno stato che comprendeva sia la Russia che l’Ucraina.

Cercare di minimizzare il ruolo dell’Unione sovietica nel corso dell’ultimo conflitto mondiale non è solo puerile ma anche stupido. Il tentativo di spiegare i fatti avvenuti dopo l’inizio dell’ “Operazione Barbarossa” attraverso la lente del presente è un tentativo politico che, in effetti, meriterebbe attenzione poiché rischia di compromettere non poco il reale valore che ha la memoria.

Certo, la memoria, personale o collettiva, è malleabile, modificabile, ricostruttiva ma la storia è una disciplina rigorosa e seria, essa si basa su fonti fattuali, incrociate, verificate, analizzate e poi, infine, interpretate.

Il Giorno della Memoria non può quindi essere affrontato con lo spirito che viviamo quotidianamente altrimenti le paure della senatrice Segre sono destinate a prendere forma nuovamente.

Infatti, se le rielaborazioni di comodo scalzano la storia (anzi, la Storia), essa non servirà più a nulla e tutti i valori, di conseguenza, nei quali abbiamo scelto di riconoscerci saranno in conclusione sventrati di ogni contenuto e abbandonati alla mercè di ogni possibile deriva retorica.

Sì, i primi soldati ad arrivare al campo di Auschwitz appartenevano ad un reparto comandato da Anatolij Shapiro, un ebreo della regione di Krasnorad, città dell’oblast di Kharkiv ma porre l’accento sull’origine etnoterritoriale del comandante che arrivò per primo al campo di concentramento è fuorviante.

Il concetto di identità ucraina si è evoluto molto dal 1945 tanto da non poter definire “ucraini” i soldati che allora combattevano per l’Armata Rossa, (sebbene fossero tanti).

Allo stesso modo, è fuorviante concentrare le proprie attenzioni sull’origine etnoterritoriale di un solo comandante perché si rischia di mistificare i fatti e dimenticare quindi che, non solo molti ucraini collaborarono con i nazisti pur di combattere i russi ma anche cosa ha significato la Seconda guerra mondiale per la Russia.

La Russia (non l’Unione sovietica in questo caso) è il paese che ha perso il maggior numero di uomini in termini assoluti sui campi di battaglia; inoltre, essa ha coordinato le operazioni dell’Unione sovietica (non casualmente) mobilitando un’armata che ha costretto i tedeschi a perdere l’80% delle proprie forze sul fronte relativo.

Molti storici ritengono altresì che se i sovietici non avessero vinto a Stalingrado, i tedeschi avrebbero conquistato i fattori produttivi dell’Ucraina e dell’Azerbaigian e di conseguenza una posizione di notevole vantaggio rispetto alle forze alleate per cui, credo sia doveroso, a questo punto, chiedersi spontaneamente quale sia la differenza tra chi nega la Shoah e chi nega il contributo russo e sovietico dal 1941 al 1945.

Le oscenità appena descritte sono però la punta dell’iceberg di qualcosa di ben più profondo, purtroppo: una diffusa superficialità a dir poco contradditoria con le potenzialità del nostro tempo.

Nonostante, in effetti, oggi sia possibile sfruttare una mole di informazioni e strumenti che mio nonno poteva solo immaginare alla mia età, la capacità critica della maggior parte degli individui si è sensibilmente ridotta.

Attraverso schemi semplici e riduttivi (forse, manichei), una buona fetta delle persone interpreta ciò che ha intorno pensando che tutto possa ridursi ad un confronto muscolare tra bianco e nero, vaccinati e non vaccinati, filorussi e filoucraini, europeisti e sovranisti ma la realtà non è sempre lineare come sembra: essa è ben più complessa di come ci spiega il tg1 e semplificarla come si farebbe come un bambino non giova al dibattito e allo stato di salute della nostre democrazie.

Il fatto che i media e i politici assecondino una dialettica tribale è un aspetto non secondario del quadro in cui siamo costretti a vivere: la minimizzazione dei problemi e la conseguente deresponsabilizzazione degli elettori è una problematica complessa che non solo contraddice ciò in cui fingiamo di credere ma noi stessi, ciò che pretendiamo di essere.

Per cercare di penetrare la melma che ha cominciato a soffocare la nostra quotidianità non basterebbe un libro ma penso che “Elogio del conflitto” di Miguel Benasayag e Angélique Del Rey possa essere un buon punto di partenza.

Nel libro in esame, sono esplorate le radici e gli effetti perversi della rimozione del conflitto dal presente; di conseguenza, secondo gli autori, rimuovere il conflitto per prediligere l’assenza di ombre nella relazione con gli altri è un’illusione poiché la rimozione del conflitto e la negazione della sua natura ineliminabile è una rimozione perpetuata ai danni di qualcosa di intrinseco alla natura umana.

Inoltre, Miguel Benasayang e Angélique Del Rey ritengono che la rimozione del conflitto possa compromettere il dibattito e patologizzare perciò ogni contestazione con l’effetto inevitabile di criminalizzazione di ogni divergenza dalla norma e dalla “normalità”.

In poche parole: la rimozione del conflitto è il preludio di un’ideologia totalitaria poiché non solo viene calato all’interno di ogni individuo come dispositivo di autocontrollo ma anche perché trasforma il potere e lo trasferisce da una logica del potere “antica” ad una logica degna di un potere disciplinare.

Il conflitto, quindi, non solo è proprio degli individui ma anche dei gruppi a cui appartiene e, non a caso, gli autori del libro in oggetto dedicano il terzo capitolo alla guerra e al suo significato.

Secondo Miguel Benasayang e Angélique Del Rey, gli orrori del ventesimo secolo non sono da imputare in maniera esclusiva ad un’ideologia piuttosto che ad un’altra ma ad una perdita diffusa del significato del conflitto e, naturalmente, della guerra.

Citando Sun Tzu, essi ritengono dunque che la guerra non debba avere come obiettivo l’annientamento del nemico né la demonizzazione dello stesso al fine di individuare un capro espiatorio contro cui armare i cittadini ma debba essere breve e soggetta a princìpi di autoregolazione atti a conservare la stessa nell’alveo di una dimensione di molteplicità e complessità.

La guerra, in conclusione, non è un fatto banale ed eroico, non è un fatto che si riduce allo scontro frontale tra due schieramenti, uno dei quali popolato da esseri umani e l’altro da non-umani.

Nel terzo capitolo, ad esempio si legge che: “In questo orizzonte, in cui il conflitto si è ridotto a scontro frontale, il razzismo diventa la struttura stessa dell’azione: l’altro è sempre “assolutamente altro”, soggetto non-umano che va eliminato con ogni mezzo, meritevole di subire la violenza più barbarica in quanto nemico dell’umanità. Ma quando si inizia a credere che esista una barbarie buona distinta dalla barbarie cattiva, quest’ultima ha già vinto la partita. Si abbandona il conflitto per fare ingresso in una forma di vita organizzata in funzione dello scontro permanente, in una dimensione pubblica polarizzata all’estremo. Ogni pensiero della complessità diventa sospetto, ogni persona le cui reazioni non si riducano a riflessi condizionati, ad automatismi che decidono a priori chi è il buono e chi è il cattivo, apparirà incline alla connivenza con il nemico. Quanti si sforzano di pensare in termini più complessi risulteranno pericolosi agli occhi dell’uno come dell’altro versante, e forse proprio questo dimostra come tra i due avversari, intenti ad ammazzarsi a vicenda ammazzando con loro migliaia di inermi, esista una profonda affinità. Per gli stati così come per i terroristi, le persone non sono che oggetti manipolabili in vista di fini superiori, siano essi la ragioni di stato o la sacralità di un valore…”               

Sebbene la prima edizione di “Elogio del conflitto” sia stata pubblicata nel 2007, molto di ciò che è stato poc’anzi descritto non può non ricordarci quelle dinamiche perverse che hanno spiegato all’opinione pubblica il Covid-19 e la guerra in Ucraina.

Semplificare la realtà attraverso schemi predefiniti secondo cui chi non si vaccina è un “no vax” ignorante e filorusso è facile, non comporta impegno ma la realtà non è facile come sembra, è ben più complessa.

Come abbiamo già avuto modo di spiegare in passato, se i cosiddetti “no vax” fossero in effetti tutti ignoranti l’Italia sarebbe un paese migliore dove si acquistano più libri e dove non esistono programmi spazzatura ma non è così; per ragioni non diverse da quelle appena spiegate, se la guerra in Ucraina fosse descrivibile esclusivamente per mezzo di una lotta tra un paese dispotico e una democrazia sarebbe tutto più facile ma non è così poiché prima del conflitto, sebbene Putin non sia un fautore della democrazia, dell’Ucraina si parlava spesso come di un paese corrotto e non esemplare per il rispetto dei valori democratici.

In ultima analisi, sarebbe comodo per tutti deresponsabilizzarsi e consegnare l’onere delle proprie valutazioni a terzi ma farlo significherebbe contraddire una volta per tutte ciò per cui sosteniamo la parte dell’Ucraina nel conflitto con la Russia. Un’osservazione che tenga infine conto della complessità dei valori in gioco non solo ci consentirebbe quindi di evitare sterili divisioni pensate per assecondare un potere egoista ma, forse, ci consentirebbe di individuare serenamente le cause di una guerra e gli strumenti a disposizione per risolverla.

In un anno, le contraddizioni sono state molteplici e ciò che era stato previsto non è accaduto, (la Russia, tanto per cominciare, non è fallita e Putin non è stato ucciso); per cui credo, a questo punto, che sia oltremodo opportuno chiedersi prima che sia troppo tardi se sia possibile continuare a provocare una potenza nucleare senza tener conto di quei presupposti storici e geopolitici che tanto sosteniamo di apprezzare ma che poi, in realtà, preferiamo all’ovvio e alle logiche di un potere ipocrita e squisitamente disciplinare.

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