“Care studentesse, cari studenti, care colleghe, cari colleghi, care collaboratrici, cari collaboratori, vi scrivo ancora attonito e sgomento di fronte al tragico gesto di una vostra compagna, una nostra studentessa, che ha deciso di togliersi la vita all’interno dell’Università”. Inizia così la lettera che Gianni Canova, il rettore dello Iulm, ha inviato a studenti e lavoratori dopo i fatti che hanno visto una ragazza di diciannove togliersi la vita nell’università di Carlo Bo.

Per evidenti ragioni, il gesto della giovane studentessa ha commosso un’opinione pubblica già profondamente turbata e di conseguenza, da più parti, qualcuno ha (ri)cominciato ad interrogarsi sul significato che hanno scuola e università per i giovani.

La protagonista della triste storia che ha avuto inizio mercoledì non ha deciso di suicidarsi perché ha partecipato ad un macabro gioco, no: ha deciso infatti di togliersi la vita perché ha giudicato fallimentare il proprio percorso di studi appena cominciato.

Oggi è facile fare “mea culpa” e piangere la perdita di una giovane studentessa. Allo stesso modo, è facile speculare sulla morte della ragazza e approfittarne della situazione per invadere gli spazi del dibattito pubblico con riflessioni stucchevoli e retoriche ma quanti di quelli che in queste ore criticano una visione tossica della competitività e guardano con amarezza al disagio delle giovani generazioni hanno il coraggio di proporre e realizzare qualcosa di effettivamente nuovo?

Il 26 marzo 2021, una ragazzina di quattordici anni scrisse alla madre che sarebbe uscita perché esasperata dalla DAD e il popolo del web, piuttosto che comprendere l’amarezza di un’adolescente, si scagliò contro la ragazzina con ingiurie terribili del tipo “Meriterebbe gli schiaffi”, “Bambina viziata”, “Vergogna!”, “Questa è una guerra!”…

Ora, pur ammettendo col senno di poi che la notizia appena ricordata non fosse vera in termini assoluti, trascurare i commenti di chi, per terrore, sbraitò contro il fatto che un’adolescente aveva deciso di dire “basta” alla DAD sarebbe pretenzioso e contradditorio con i commenti letti negli ultimi due giorni.

Scrivere oggi, come hanno fatto Valter Veltroni e Massimo Gramellini che il lockdown ha devastato i ragazzi è un esercizio scontato ma inutile.

La DAD e l’ossessione per il governo Conte di colorare le regioni non hanno infatti significato solo disagi per le piccole e medie imprese ma anche sensi di colpa, la privazione di ogni forma di socializzazione, il rinculare nella dimensione domestica proprio nel tempo in cui da essa si deve fuggire, la rinuncia obbligata al rapporto con gli altri, alle feste, agli abbracci, ai baci e allo sport. Aver creduto quindi che tutto quello che abbiamo appena ricordato non avrebbe avuto conseguenze è sbagliato, è ingenuo e, temo, ipocrita.

A quanto risulta, ciò che oggi, tuttavia, Valter Veltroni e Massimo Gramellini denunciano dall’alto dei giornali da cui scrivono è qualcosa che era stato previsto proprio da coloro che, magicamente, sono divenuti in poco tempo “i nemici della scienza”.

“Il corriere della sera”, “Repubblica” e “La stampa” erano, in effetti, in prima linea nel sostenere le fallimentari politiche di Roberto Speranza e, “Ça va sans dire”, la “caccia” all’untore, al capro espiatorio contro cui proiettare le colpe dei fallimenti dello Stato.

Cosa significa tutto questo, in conclusione? In Italia, la risposta all’emergenza sanitaria è stata debole e illogica non solo perché ossessiva ma anche perché nessuno ha pensato di rispondere tempestivamente con un intervento a sostegno della sanità del territorio e dell’istruzione. Di conseguenza, l’incapacità di chi avrebbe dovuto effettivamente proteggere i cittadini non ha saputo che proporre odio e strategie non dissimili da quelle già viste nel 1978.

Certo, aver dimenticato i ragazzi e le ragazze per quasi tre anni non basta a spiegare il terribile gesto avvenuto all’università Carlo Bo: bisognerebbe tener conto di quanto purtroppo la realtà sia ancora profondamente pervasa da una logica sterile dove ciò che conta non è il valore dell’errore e dell’esperienza bensì il numero ma, “rebus sic stantibus”,a giudicare da come la maggioranza della collettività ha risposto alle proposte dicotomiche della classe dirigente non mi meraviglierei se tra meno di una settimana si tornasse a parlare di Sanremo come se nulla fosse accaduto.

La verità è che, purtroppo, ciò in cui siamo sprofondati è una realtà contradditoria e profondamente divisiva.

Nel 1978, quando fu sequestrato Aldo Moro, si cominciò a diffondere l’idea per cui chi criticava lo Stato aveva preso posizione con le Brigate rosse. In quel clima terribile l’unico intellettuale che “spaccò” una dicotomia sterile e inutile fu Alberto Moravia il quale scrisse sul Corsera che non solo non “avrebbe mai voluto scrivere una sola riga come quelle che scrivono le Brigate rosse nei loro proclami” ma che – nel contempo – non avrebbe “mai scritto una sola delle tantissime parole che, in discorsi, articoli, libri, hanno scritto gli uomini dei gruppi dirigenti italiani negli ultimi trent’anni, né fatto una sola delle tantissime cose che essi hanno fatto da quando sono al potere”.

La logica più autentica del suo intervento ha avuto un perché alla luce del fatto che nel suo intimo (come nell’intimo di molti altri cittadini) da tempo si era aperta la convinzione che lo Stato andasse riformato e che le convergenze dello stesso con realtà opache non fosse un bene da accettare acriticamente.

Il “terzo principio”, per citare Leibniz o, come scrissi a suo tempo, la “quarta dimensione” che introdusse Alberto Moravia è un’innovazione che fu ampiamente fraintesa come, allo stesso modo, è stato fatto oggi quando si è dichiarato che chi contraddiceva le Istituzioni nella lotta alla pandemia era un “no vax”.

Peccato però che la situazione sia molto più complessa di quanto spesso si creda e peccato, in effetti, che in seguito ad un’analisi ben più attenta di quanto si preferisca credere, sia spontaneo comprendere che la realtà non è il risultato di uno scontro manicheo tra vaccinati e non vaccinati, luci ed ombre. No: la realtà, in effetti, si può osservare comprendendo che pur rifiutando la violenza delle BR si può criticare l’assenza di trasparenza in seno ad alcuni apparati dello Stato e, in egual misura, si può riconoscere la gravità di un’emergenza sanitaria e bocciare allo stesso momento (nel merito) decisioni che hanno controindicazioni devastanti e così via…

Se è vero che la “storia è maestra di vita”, rimuginare sugli errori (o, peggio, dimenticarli) non aiuta: le cattive valutazioni degli ultimi anni dovrebbero piuttosto insegnarci a non prendere posizione istintivamente, per paura o per comodità ma valutare con attenzione i pro e i contro di ogni aspetto che siamo chiamati ad affrontare.

Osservare la complessità dei fenomeni ci costringe quindi, infine, a non prendere posizione? Tutto il contrario! Ci costringe a prendere posizione contro una visione del potere inconcludente e avida, ci costringe a prendere posizione contro una maniera di raccontare l’essere come una fiaba e ci costringe, naturalmente, a cercare nello studio e nell’impegno una soluzione per proporre delle cose nuove e alternative.

I veri ignavi, come ebbi già modo di raccontare nel racconto breve “Il fascino riservato dell’ignavia” non solo coloro che non prendono posizione, oggi, ma coloro che, al contrario, prendono una posizione per partito preso, per comodità e rinunciano dunque agli slogan e alle considerazioni “ex post” per acchiappare consensi.

Comments to: Elogio del “terzo principio” (o della “quarta dimensione”)

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