Storia di una (ri)scoperta, di un’ossessione e di un confronto insolito ma, a mio avviso, necessario.

Quando conobbi Fëdor Dostoevskij, nel 2020, sono sincero: non ebbi un’impressione positiva.

Iniziai, (purtroppo o per fortuna) “Delitto e castigo” poco prima di riscoprirmi capace di abbozzare un romanzo e infatti negli stessi giorni in cui osai scrivere “L’alba di sangue” conclusi, appunto, “Delitto e castigo”.

Sì, se ora scrivessi che il libro appena ricordato non mi è piaciuto mentirei ma ciononostante non lo apprezzai come ho apprezzato, ad esempio, “Il maestro e Margherita”, due anni dopo.

Ciò che mi ha in realtà suggerito di ritentare la conoscenza di Dostoevskij è stato proprio il romanzo di Bulgakov ma…Procediamo con ordine!

Prima di Bulgakov, prima di Margherita e di Behemot che pretende di entrare al circolo degli scrittori spacciandosi per Dostoevskij (non a caso), credo che debba imputare la “responsabilità” della mia attuale dipendenza a Paolo Nori e al tentativo di censura subìto nel mese di febbraio presso l’università Bicocca.

Quando, infatti, l’Occidente si è ricordato che in Ucraina avevamo un problema, l’università Bicocca ha tentato di impedire a Paolo Nori di tenere un ciclo di lezioni su Dostoevskij e quando è capitato qualcosa dentro (e fuori) di me non ha potuto non agitarsi.

D’accordo, alla fine qualcuno ha ritenuto oggettivamente stupido boicottare Paolo Nori e Fëdor Dostoevskij ma avendo comunque scorto un’intenzione a mio modesto parere pericolosa non ho potuto non chiedermi cosa avessero effettivamente di interessante da raccontare Paolo Nori e Fëdor Dostoevskij…

Così, ho ricominciato a (ri)leggere i russi: per prima cosa, ho letto “Il maestro e Margherita” e dopo aver salutato Margherita sono ritornato a Mosca per incontrare naturalmente Raskolnikov.

Questa volta però, ad attendermi sulla soglia dell’appartamento del protagonista ho trovato Paolo Nori che, come già accennato, non solo mi ha aiutato a vedere cose che nel 2020 non avevo visto ma addirittura a riscoprimi sinceramente pronto per apprezzare quello che è stato considerato uno dei più grandi autori della storia.

La verità è che, Dostoevskij, come qualsiasi grande artista non può essere compreso all’istante. Certo, può essere indubbiamente apprezzato ma senza una guida ciò che si rischia di incontrare potrebbe purtroppo scivolarci sulla pelle senza problemi (e sarebbe un peccato)!

Ma di cosa parla, in concreto, “Delitto e castigo”? E cosa comunica Fedor Dostoevskij? Cercare di riassumere, in poche righe, la complessità dell’autore non è semplice. Stesso discorso vale per il romanzo di cui si discute il quale non è semplicemente la storia di un ragazzo che uccide una vecchia usuraia e poi comprende di non essere il grande uomo che crede di essere, no: “Delitto e castigo” è, prima di ogni considerazione, la storia di un uomo che ci assomiglia perché dopo aver commesso un errore, non solo, per l’appunto, si ritrova a dover affrontare la sua umanità ma anche il potere dell’espiazione che deriva esclusivamente dall’amore. L’amore di Sof’ja Semënovna Marmeladova.

L’espiazione del protagonista, (attenzione), non solo tuttavia non è scontata ma neppure rapida: essa arriva, appunto, dopo un periodo lungo nel quale più di una volta è facile credere che Raskolnikov, alla fine, non si pentirà mai per davvero e non confesserà di conseguenza il suo crimine.

Per ironia del destino, la potenza che Fëdor Dostoevskij esercita sui cuori di chi, dopo un lungo patimento, arriva finalmente ad apprezzarlo è la stessa che su di me ha esercitato una serie televisiva (terminata poco prima di “Delitto e castigo”): “Better call Saul”.

Nella serie televisiva appena menzionata ho creduto fino all’ultimo minuto che Saul Goodman si comportasse come Jordan Belfort e riuscisse così a fregare un’altra volta tutto e tutti ma alla fine, come Raskolnikov, anch’egli cambia idea in maniera inaspettata e sapete grazie a chi? Grazie a Kim. Grazie a Kim Wexler! Il suo grande amore.

In conclusione, il fatto che, a distanza di centocinquantasei anni, il riflesso di Fëdor Dostoevskij abbia illuminato la meravigliosa conclusione di una serie televisiva unica nel suo genere come “Better call Saul” è significativo e dovrebbe ispirare più di una riflessione circa il peso avuto dall’autore russo nella cultura contemporanea.

“Better call Fëdor”, allora: l’osservazione poc’anzi scritta ci comunica (spero) un’ulteriore conquista che spero possa prima o poi ispirare non solo il cuore di qualche altro lettore squattrinato come me ma anche il cuore di chi la storia può ancora scriverla: pensare di censurare un autore è stupido perché se la cultura può raccontarci idee universali che personaggi come noi possono vivere esattamente allo stesso modo (a prescindere dal tempo, dallo spazio e soprattutto dal contorno) significa inequivocabilmente che una maniera per imparare dai propri errori e ripartire si può comunque sempre (ri)trovare.  

P.S. Le storie di Raskolnikov e Saul Goodman sono le storie di due uomini ridicoli? Due piccoli uomini che vorrebbero essere qualcosa che non potranno mai essere? Cosa succederà a Raskolnikov al termine del suo periodo di detenzione in Siberia è un mistero ma sappiamo bene cosa accade a Saul Goodman quando finalmente getta la maschera e torna ad essere Jimmy McGill: nella divisione, la sua anima si ricongiunge a quella di Kim e dopo anni e anni di disavventure e bugie, si riscopre un magnifico perdente.

E’ ridicolo, allora? Saul Goodman è ridicolo? E Jimmy McGill? E Raskolnikov? Sono ridicoli, costoro? Credo che rispondere sia difficile poiché, inevitabilmente, ci costringerebbe a chiederci a nostra volta quanto siamo ridicoli noi o quanto potremmo esserlo di fronte alla possibilità di espiarci, oggi, grazie ad un sentimento.

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