Rincorsa, salto, rovesciamento, caduta, chiusura. Cinque sezioni scandiscono questa raccolta di
poesie, unica traccia lasciata dall’Autore a chi voglia sbirciare il suo mondo.

Ogni poesia un vortice leggero da cui si apre una finestra nel tempo, in cui la realtà vissuta è carnalmente unita all’Io del poeta. Il ritmo dettato dalla musica delle parole, dall’intonazione delle frasi prive di punteggiatura, lascia il lettore libero di sintonizzarsi sull’opera, sulla sinfonia, sui significati, senza altri aiuti che l’esperienza diretta del testo.

Fabrizio è originario di Pescara, ha completato gli studi universitari tra Siena e Leiden, lavorato a Milano e ora è ricercatore ad Amburgo. Capriolare sembra sia il metodo da lui prescelto per attraversare la prima fase della vita adulta, e infatti la prima poesia termina con un verso quasi programmatico: “Ulisse non è morto a Itaca”. Questa spinta, anzi “questa fame che mi serra la mascella” – altro verso che descrive magnificamente il moto di tutta la raccolta – porta a chiederci, come probabilmente si chiede anche l’Autore: Fabrizio è in fuga o in viaggio?

Sentiamo e sente una forza che lo spinge ad allontanarsi, a cercare lontano. Ma nelle rivoluzioni di questo moto non c’è la frenesia che ci si potrebbe aspettare, il poeta trova il tempo per accogliere dentro di sé i momenti di bellezza, di dolore, di nostalgia, di amore, per rielaborarli secondo la sua sensibilità e fissare questi frammenti di realtà interiore – di vita – così da poterli esprimere.

Durante il percorso ci imbattiamo nell’assenza di Dio e nella morte dell’ideologia, constatate anche nel medesimo componimento, e scopriamo che non nascondono alcun dolore, alcuna passione sopita o delusa, ma sono semplicemente presupposto della realtà. Altro è più interessante e vivo nella penna del poeta: bambini come colli di giraffe sulla sabbia, la solitudine in una città straniera, oppure il misterioso gioco dell’amore.

Molte poesie sono dedicate a una donna (o a più donne?), all’amore vissuto sulla pelle, cercato come una certezza “tra il tuo collo e la tua spalla costruirò la mia chiesa”, a tratti però distante, alieno “non mi hai mai detto il tuo dolore / né ho chiesto né conosco”. Neanche l’Amore in sé considerato è un valore assoluto, un luogo di pace. Si può trovare rifugio in esso, una notte o due, ma altre sfaccettature dell’amore sono in agguato per ferire, pungolare, a tratti riaccendere una fiamma morente – anche l’amore è movimento, ricerca, fuga; difficilmente è “casa”, una mèta, né probabilmente è cercato come tale.

Solo in quello che il poeta chiama “caduta” e “chiusura” riemergono macerie di stabilità, con cui forse costruire una nuova casa. O diventeranno un’altra zattera su cui sciabordare, scarrocciare alla deriva in un diverso mare, prendere la rincorsa per una nuova capriola?

In ogni caso i frammenti di vita che il poeta ci ha voluto regalare, arrivati alla fine della lettura, fanno anche parte di noi. Le esperienze universali della vita dell’uomo sono state vestite della realtà e dell’immaginazione – della sensibilità soggettiva – di Fabrizio, che ci ha accompagnato dentro di sé, tra i suoi oggetti, tra le sue città, tra le sue donne, tra i suoi dubbi e le sue certezze, mostrandoci senza rivelare tutto, accogliendoci nel suo vortice quotidiano, per un po’.

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