Perché la crisi che stiamo attraversando non può essere considerata come una crisi dello Stato e del suo funzionamento? Se lo Stato non riesce più a proteggere i cittadini di fronte un’emergenza come può essere garante del corretto funzionamento della cosa pubblica?
Il caos che stiamo subendo ha infatti origini profonde, origini intrinsecamente legate ad un duplice fallimento: quello della politica e quello della Pubblica amministrazione. Il primo, dipende da un racconto macabro che ha generato l’idea del confronto perenne tra fazioni come scontro ideologico e non razionale; il secondo, è figlio di una conseguenza inevitabile: se nessuno si preoccupa di gestire e far funzionare la “macchina” dello Stato, come si può pretendere che la stessa rispetti i princìpi dell’implementazione e dell’efficienza?
Parlare di buon governo oggi è utopico e non a caso, il politico, prima di essere qualunque altra cosa, è un agitatore, un megafono ma mai una guida.
Seguendo il filo della normale disfunzione che abbiamo appena osservato, tutto si riduce di conseguenza ad attacco e difesa, tutto è rinuncia all’analisi e alla proposta e sempre più spesso, tradimento dei fondamenti della democrazia.
Un grido irragionevole? Non credo. Una democrazia pluralista, in uno Stato liberale, funziona solo se le parti sociali collaborano in modo responsabile e sanno rinunciare a qualcosa per un bene comune.
Fu Tito Livio per primo a riconoscere e ad analizzare l’origine di quegli elementi che minano l’integrità dello Stato: “Le lotte fra fazioni furono e saranno la rovina di molti popoli, più delle guerre esterne, più della fame e delle malattie” (“Ab Urbe Condita”, IV,9,3).
Chiedersi a questo punto quale possa essere il futuro della nostra democrazia è legittimo. Quale possibilità può avere dopotutto una comunità se di fronte al pericolo si crea sempre un litigio?
Quale possibilità può avere una comunità se di fronte al futuro si generano sempre scorci di una lotta di classe che sembra non avere fine?
Tra partite Iva abbandonate a sé stesse e in lotta con la burocrazia e la burocrazia in lotta con le partite Iva, solo una politica distrutta gode, una politica che non credo conosca Tito Livio e Giulio Cesare ma che purtroppo conosce bene il significato della frase “divide et impera”.
Diciamoci la verità, per una volta: ma gli italiani che erano tanti bravi, come hanno potuto tradire la fiducia di una classe politica che si era tanto vantata dei suoi sudditi nei mesi di marzo e aprile?
Addossare ai cittadini la colpa di ciò che sta accadendo può essere vero, ma fino ad un certo punto: come possiamo dimenticare la totale disorganizzazione con cui si è arrivati a gestire una seconda ondata di cui da troppo tempo si parlava?
Cosa è stato fatto per i trasporti pubblici? Cosa è stato fatto per le scuole? Cosa è stato fatto per la sanità? Cosa è stato fatto dopo aver finito di rimproverare in modo isterico un giovane con un cocktail in mano su un banco a rotelle? Niente. Assolutamente niente. Ed è oggettivo.
La questione, supera le simpatie e le antipatie, la questione è ben più grave e riguarda una paralisi del pensiero che si è resa evidente con la chiusura dei cinema e dei teatri: cosa resta oggi delle grandi trasformazioni digitali? Cosa resta delle grandi trasformazioni ambientali e sociali? Cosa resta del problema Turchia e di tutte quelle implicazioni geopolitiche che la maggioranza degli italiani ignora? Il niente. E anche in questo caso, ahimè, il niente è oggettivo.
Classe 1994, lettore vorace dall’età di sei anni e autore dei romanzi “L’alba di sangue” e “Il regno di Romolo”.
Di me hanno detto che sono un “egocentrico” ma non ho ancora capito perché.
Credo di avere tuttavia molto in comune con i liberali di una volta e di essere un insaziabile ricercatore di novità.
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