Sento i rumori del giorno che si ferma, il rumore delle persone che chiudono le imposte, il rumore del silenzio delle auto che non passano. Mi affaccio alla finestra e sento tutto questo, e sento l’aria fresca di questa sera di primavera che mi solletica il mento, e mi chiedo come possa essere mai possibile che non mi possa godere quel tocco sul viso con anche la fragranza del pino marittimo e della salsedine a lambirmi i sensi, sdraiato sull’umido ventre della pineta: e penso a quanto sia ridicolmente struggente tutto questo, e di come prostituirei volentieri il romanticismo di questo pensiero in cambio di una sigaretta da fumare avidamente sul cornicione della finestra.

Scendo piano lungo le scale del palazzo, accarezzando dolcemente le chiavi che porto in tasca e origliando le risate che prorompono dal circo televisivo che intrattiene la serata dei vicini: esco all’aperto, e il profumo del maggio odoroso che prima avevo soltanto intuito sul viso ora mi avvolge completamente, assieme ai raggi di luna piena che mi lambiscono e mi rapiscono per la loro bellezza, così tenue eppure così intensa. In quel momento, nella dolce brezza fresca, un fiocco di neve mi cade sulla fronte.

Apro la serranda e mi faccio strada nel cunicolo stretto ed oscuro che mi conduce alla serratura. Scivolo dentro la macchina, e l’odore di vent’anni di ricordi intrisi nella pelle dei sedili mi impugna e mi avvolge, e mi invita a scrivere un’altra riga del racconto ancora incompiuto: la chiave penetra nel cruscotto e la vettura si desta con un gemito, compiacendosi della sensualità del gesto e della sapienza della mano. Usciamo fuori silenziosamente, e la neve continua a cadere lenta e morbida.

La strada è vuota, il giorno si è fermato, ma le mie mani sono vive e così sono i miei piedi, tutt’uno col vento che mi avvolge in questa danza sincopata di movimenti, e la vita mi torna nelle vene, il sangue riprende il suo calore, perché penso alla bellezza dell’improvvisazione e alle sue ovvie implicazioni, al delirio futurista di velocità, tecnica e coordinazione che mi sussurra all’orecchio, “corri più forte, corri più lontano”. Immagino il siparietto con l’anonimo passante e il suo inevitabile disappunto, e alleno già la mia lingua all’esercizio del vaffanculo, pregustando il piacere caldo che mi pervaderà al pensiero del non concedergli possibilità di risposta.

L’auto accelera, la strada si restringe, e la neve sottile diventa più chiara e luminosa sotto il bagliore dei fari: all’improvviso la strada finisce, il tunnel si interrompe sul vuoto, ed inchiodando ferocemente mi fermo sul ciglio del nulla, prima di finirvi inevitabilmente inghiottito. Scendo e contemplo la sua maestosità, la neve che cade dall’alto e che scompare ai miei piedi nell’oscurità, come fosse impressa su un nastro fotografico eterno e senza fine. Penso che il mondo non possa finire lì, ma di certo il mio viaggio sì: svegliati allora e togliti quella maschera da Dylan Dog, perché c’è un’altra storia da scrivere domani, una storia di appunti dell’orrore, una storia che si svolgerà alla luce del giorno.

Poggio la mia vecchia sfera di vetro sul comodino, e dopo averla scossa continuo a fissarla finché il sonno non mi prende: mi piace scuoterla prima di andare a dormire, mi fa tornare bambino.

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