Nel contesto della ricerca di vita intelligente extraterrestre, il Grande Filtro è un concetto introdotto al fine di cercare di offrire una spiegazione al famoso paradosso di Fermi: in sostanza, se l’universo è così grande, come mai non abbiamo mai trovato traccia di vita al di fuori della Terra?.
Secondo il Grande Filtro, il fatto che l’universo non sia pieno zeppo di vita intelligente potrebbe dipendere da una semplice congettura: il processo che porta all’evoluzione di forme di vita intelligenti deve far fronte ad un ostacolo insormontabile che rende il tutto abbastanza improbabile, questo omonimo
grande filtro.
Abbiamo già collettivamente, come specie umana, superato il filtro? Si trattò forse, qui sulla Terra, del complesso meccanismo tramite il quale le forme di vita eucariote diventarono procariote per la prima volta? Potrebbe essere una possibilità. Un’altra possibilità, assai più inquietante, è che il filtro ce l’abbiamo davanti: forse nell’universo sono esistite centinaia, migliaia di altre società come la nostra, con la loro storia millenaria, arrivate al capolinea prima di aver trasmesso una mole di informazioni sufficiente per poterla distinguere dall’onnipresente fruscio del background cosmico. Una chiamata troppo debole, troppo fievole affinché una qualunque altra civiltà simile alla nostra abbia potuto rispondere prima di andare incontro anch’essa al Grande Filtro.
Storie d’horror fantascientifiche (o reali?) a parte, tutto questo ci può portare ad una interessante spunto di riflessione: e se questo concetto si potesse applicare ad altri principi, più filosofici e meno (fanta)scientifici? Per esempio, sarebbe errato proporre che gli innumerevoli regimi totalitari storicamente sorti e caduti in Europa, abbiano incontrato un Grande Filtro sotto forma della seconda guerra mondiale? Un ostacolo così grande, così significativo da poter effettivamente porre fine al vecchio concetto di imperialismo e potere assoluto. Non sarebbe però nemmeno impensabile di postulare che tale filtro possa aver avuto un effetto semplicemente temporaneo e trasformativo, dando vita ad un periodo di libertà solamente transitoria.
Forse il più grande esempio applicato alla storia in questo modo di un Grande Filtro tangibile si staglia all’interno dei nostri schermi: i social media, e più in generale la monopolizzazione dell’informazione. A superare o a perire per mano del filtro dovrà essere la libertà di espressione. Mentre aspettiamo con sguardo catturato che questo diritto inalienabile faccia il salto per provare a valicare l’ostacolo, è opportuno comprendere come e perché esattamente i social media abbiano iniziato a rappresentare una minaccia alla sua sopravvivenza.
Immaginate che io, l’autore, possegga un’appezzamento più o meno vasto di terreno, e che inizi ad invitare persone e permetta a loro di entrare ed utilizzare il mio terreno per qualunque attività a patto che firmino un contratto che elenca le condizioni di utilizzo. Fino a qui, niente di strano, d’altronde il terreno è mio e decido io i termini. La zona recintata inizia però a crescere e crescere ed è così di successo che inizia ad inglobare terreni limitrofi dalla funzione simile, soffocandone altri in virtù del fatto che è più probabile che un cliente entri nel terreno più grande piuttosto che in quello più piccolo e sconosciuto. Ad un certo punto il mio terreno diventa così esteso che chiunque voglia svolgere qualunque attività, è fondamentalmente forzato a doverci passare attraverso, e ad essere quindi soggetto alle mie condizioni, che posso cambiare liberamente ogni giorno senza che nessuno possa fare nulla a riguardo. Da quel momento in poi, dopo il raggiungimento della singolarità del monopolio, chiunque risieda sul mio terreno è assoggettato al mio volere e alle mie convinzioni.
Facebook, Twitter e YouTube hanno, nella realtà, seguito un iter di sviluppo analogo al mio immaginario appezzamento di terreno, arrivando in fine ad un passo dal monopolizzare il teatro dell’informazione e persino del giornalismo: ogni giornale o piattaforma di pubblicazione ormai è fondamentalmente forzato a postare i propri articoli, video, film, prodotti di intrattenimento generale tramite uno dei tre social media per poter avere una realistica prospettiva di crescita, a prescindere dalla dimensione o dal prestigio della testata, e deve inoltre contendersi i consumatori con il segmento in forte crescita dei cosiddetti content creator, privati singoli che producono materiale di qualità sempre più comparabile alle grandi compagnie.
Non è infatti inaudito che uno YouTuber per esempio, anche lavorando da solo, riesca ad accumulare più views di un qualunque telegiornale nazionale. Questa è sicuramente un piacevole sviluppo per la libertà di informazione, perché permette la condivisione di innumerevoli punti di vista e di input che senza internet sarebbero per sempre stati relegati nell’oscurità. Una vittoria non senza conseguenze, però.
La stampa classica infatti, per combattere la morte dapprima del cartaceo per mano del digitale e poi l’attuale declino in favore dell’informazione indipendente, ha iniziato sempre più a dover ricorrere al clickbait, ovvero titoli sempre più osceni finalizzati semplicemente ad adescare un potenziale lettore. Spesso i titoli clickbait vengono accompagnati da articoli appositamente divisivi. La circolazione di tale contenuto sui social ha portato ad una vera e propria rivelazione: l’utente medio è più propenso ad interagire con contenuto che provochi una reazione negativa, e la causa di ciò va ricercata come per innumerevoli fenomeni nella storia evolutiva dell’uomo.
Lo stesso scopo della memoria è in primis immagazzinare esperienze negative affinché si possa imparare dal passato come comportarsi nel futuro al riproporsi di situazioni simili a quelle memorizzate. È la ragione per la quale ci ricordiamo più facilmente dei momenti imbarazzanti o persino traumatici rispetto a quelli piacevoli: non si può in genere imparare molto dalle esperienze positive. Se poi i nostri antichi antenati mettevano piede nel territorio di qualche animale terribile, chi sopravviveva non si sarebbe certamente voluto dimenticare il luogo dell’accaduto, e condividendo l’informazione con i membri della propria comunità, avrebbe potuto evitare che altri sventurati fossero vittime di una brutta sorpresa. Condividere è interazione, e l’interazione è denaro. Tornando infatti al presente, tutto il ricavato traibile dall’utilizzo del digitale come piattaforma di marketing ha come fonte ultima il quantitativo di interazione con un prodotto da parte dell’utente.
Facebook e Twitter, primi tra tutti, colsero la palla al balzo, cimentandosi in veri e propri esperimenti di ingegneria sociale per massimizzare in assoluto click e traffico, proponendo ai propri utenti materiale sempre più controverso atto a provocare una reazione di indignazione, che porta più facilmente alla condivisione del materiale in questione. I social media inoltre offrono indirettamente la possibilità all’individuo di circondarsi solamente di informazione che convalida e rafforza pregiudizi già fortemente radicati in esso, favoreggiando il bias cognitivo, e spesso, tramite gli algoritmi, favorisce che questo accada proponendo sui propri feed materiale sempre allineato con quello che l’utente vuole vedere. L’utente poi condividerà tale materiale con altri individui dagli interessi simili.
Muore così il dialogo, portando con se il vero giornalismo dell’informazione imparziale, mentre le testate giornalistiche moderne, dalla più piccola alla più prestigiosa, scelgono un interesse, un partito od un’ideologia e si mettono al servizio dell’algoritmo sperando di infiltrarsi nelle camere d’eco create tramite il meccanismo descritto poco sopra. Il risultato è che quando due o più di queste reti di utenti, lettori, giornali e content creator che si trovano agli opposti si scontrano, il confronto diventa fondamentalmente impossibile, dando luogo ad ulteriore polarizzazione ed estremizzazione.
Il vero problema, ancora più grande, è quando una di queste entità diventa tanto prevalente da rappresentare agli occhi dell’osservatore l’intera comunità del social network, portando gli stessi moderatori ed i vari addetti ai lavori della piattaforma ad abbracciare la fazione più in voga. Questo significa che, come stiamo vedendo, una frazione minima ma vocale degli utenti di un social network può in effetti influenzare i servizi del sito a discapito della maggioranza silenziosa.
Tutto ciò sta portando all’insorgenza di una vera e propria rinascita della censura che si accanisce su chiunque venga considerato scomodo dagli esponenti più rumorosi della fazione ideologica di turno al potere, finché l’intero social network stesso si piega al servizio di essa.
Lo strumento più amato da chi cerca di censurare una persona non grata è il cosiddetto deplatforming, il ragionamento dietro al quale fondamentalmente recita “non sono d’accordo con te, quindi non meriti una piattaforma sulla quale promulgare le tue idee”. E se chi spinge per il deplatforming è abbastanza fragoroso, i social network sono più che contenti di provvedere alla rimozione dell’individuo o sentimento controverso.
La parzialità dei detentori dei servizi di informazione è tanto più grave tanto più è grande la piattaforma, e nel caso di Google, è disastrosa: non è fuori luogo sottolineare come probabilmente non ci sia stata mai una corporazione tanto potente quanto Google, considerando che controlla a livello fondamentale la quasi interità della mole dell’informazione che scorre nelle vene di internet.
Il tutto è reso più complesso e preoccupante dall’affacciarsi di un regime totalitario come la Cina nel mondo del digitale che, soprattutto tramite il gigantesco conglomerato Tencent (che ha come 33% dei dipendenti membri del Partito Comunista Cinese) si sta ritagliando una fetta sempre più grande nel settore dell’intrattenimento, al punto che grandi aziende del settore come Blizzard sono ora influenzate dagli shareholder cinesi. Blizzard, prima conosciuta come una rispettabile compagnia videoludica, censurò e punì, tra le altre misure, con la squalifica dal torneo ufficiale del 2019 un giocatore di Honk Kong che dimostrò pubblicamente il suo supporto per le proteste pro-democrazia del proprio paese.
Gli sforzi dei governi nel regolare l’impatto dei social media sulla società, tra l’altro, in molti casi non hanno fatto altro che andare a impattare ancora di più la libertà di ogni individuo su internet. I pioneri della regolazione sull’informazione digitale sono stati gli Stati Uniti e, considerando come la maggior parte delle compagnie menzionate nel presente articolo facciano sede nel territorio statunitense, ogni mossa da essi intrapresa offre delle importanti ripercussioni sul panorama globale. Gli Stati Uniti passarono a legge il Communications Decency Act nel 1996, nel tentativo di ridurre la condivisione ed il caricamento di materiale pornografico su internet. All’interno di tale atto, però, risiede una sezione che potrebbe diventare la chiave per la risoluzione del problema: Section 230.
Section 230 specifica che le piattaforme di condivisione come social network non possono essere ritenute responsabili per il contenuto condiviso dagli utenti all’interno di esse, rappresentando una vera e propria vittoria, all’epoca, per lo sviluppo di tecnologie digitali per la comunicazione. Alla base di tutto ciò risiede il concetto che tali piattaforme non possono essere infatti paragonate a editori o redattori del materiale postato dai loro utenti. La domanda sorge spontanea: se Twitter e Facebook stanno attivamente censurando materiale condiviso da utenti, favoreggiando chiaramente gli uni e penalizzando gli altri, non si stanno comportando come editori? In questo caso perderebbero le protezioni a loro garantite dalla Section 230. Alcuni esponenti politici stanno persino spingendo verso l’abrogazione della sezione, mentre gli utenti di internet discutono se sia la mossa giusta o meno.
L’internet rappresenta l’ultima e più importante, vasta frontiera della libertà di espressione, il primo e unico modo di accedere facilmente a quantitativi inimmaginabili di informazione. Se i primi anni del world wide web si posero come analoghi dello storico wild west, il presente rappresenta i susseguenti sforzi verso la civilizzazione e urbanizzazione. Resta solo sperare che tale processo non porti alla perdita della nostra amata libertà di espressione, o alla perdita della possibilità di utilizzare questo incredibile, potentissimo strumento che permette per la prima volta all’individuo più sconosciuto di sfidare lo status quo e di raggiungere tramite esso milioni di altre persone dapprima inarrivabilmente lontane.
I nostri diritti, le nostre libertà, due tra i più fondamentali, saranno quindi capaci di sopravvivere a questo artificiale Grande Filtro?
Classe ’95, lavora nel marketing digitale, un’industria in continuo cambiamento che troppo spesso assedia la nostra libertà di espressione e la nostra privacy. Da sempre appassionato di storia e filosofia, e in particolare all’astronomia, sempre attento però a non fare la fine di Talete.
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