Il capo del governo è la figura centrale di uno Stato moderno. In Italia, la Costituzione rappresenta i valori fondamentali, il Presidente della Repubblica rappresenta lo Stato con la sua persona, il Parlamento rappresenta il popolo italiano…. ma il cardine di tutto il nostro sistema resta anche qui il capo del Governo, altresì noto anche come Presidente del Consiglio dei ministri. Nel nostro ordinamento tale figura è un primus inter pares con funzioni di direzione della politica generale del Governo, mantenimento dell’unità di indirizzo politico ed amministrativo e coordinamento degli altri ministri (articolo 95 della Costituzione). Per questo, definire il capo dell’Esecutivo “premier” è inappropriato. Ebbene, qual è il modo in cui il popolo italiano entra in relazione con tale figura, che dovrebbe garantire una grande rappresentabilità e una grande fiducia con il popolo stesso? Paesi come gli Stati Uniti d’America (sistema presidenziale), o la Francia (sistema semi-presidenziale) riconoscono una tale importanza all’elezione di questo organo da basare quasi tutta la vita pubblica della nazione sulla scelta del soggetto idoneo attraverso una attentissima campagna elettorale. Il serratissimo commento e la costante analisi di ogni gesto del cittadino selezionato (vedasi in proposito l’attenzione dei media Usa al dibattito sulle elezioni successive, che spesso inizia addirittura prima della metà del mandato in corso) sono ulteriori prove della centralità riconosciuta a chi esercita il potere esecutivo nella vita pubblica. Nei Paesi citati il capo del Governo viene eletto, in un certo senso, direttamente dal popolo, e questo fattore crea un rapporto diretto di fiducia, stima e rappresentabilità, che lega l’apice del sistema politico al cuore stesso del paese: il suo popolo, appunto. Scriviamo “in un certo senso” perché negli Stati Uniti d’America l’elezione del Presidente avviene per via indiretta dopo l’elezione dei grandi elettori: questi, dopo essere stati eletti, votano a scrutinio segreto il Presidente e il Vicepresidente. Nonostante ciò, è innegabile che il candidato Presidente e il Vicepresidente non abbiano un ruolo da protagonisti nel corso della campagna elettorale.

Questo non è ciò che avviene in Italia. La forma di governo italiana è una forma parlamentare e precisamente una Repubblica parlamentare che distingue al suo interno due Camere legislative (Camera dei Deputati e Senato), un Capo di Stato (ad oggi Mattarella), un distinto capo di Governo (ad oggi Giuseppe Conte), una Corte Costituzionale (con sede a piazza del Quirinale a Roma) che giudica la correttezza delle leggi emanate alla luce delle fonti del diritto, (prima fra tutte la Costituzione); un sistema di giudici che fa capo al Consiglio Superiore della Magistratura (con sede al Palazzo dei Marescialli a Roma). Il popolo italiano esprime il suo voto per indicare la preferenza circa la composizione politica delle camere legislative. Il nostro sistema è multipartitico, quindi è assolutamente frequente la mancanza di una netta maggioranza in Parlamento. La legge elettorale regola il meccanismo del voto ed essenzialmente tale legge svolge due funzioni: trovare un meccanismo di calcolo che converta i voti espressi in preferenze e le preferenze così risultanti in seggi parlamentari. Inoltre, a differenza degli Stati Uniti, da molto tempo chi ricopre il ruolo di Presidente del Consiglio non partecipa attivamente ad una competizione elettorale. Come già si accennava, all’indomani delle elezioni in Parlamento non vi è quasi mai una netta maggioranza in grado da sola di avere i quorum decisionali per approvare le leggi. Occorrono quindi delle alleanze tra i vari partiti, ed è in questo frangente che entrano in gioco le cd. “consultazioni” del Presidente della Repubblica, che, lo ricordiamo, nel nostro caso è Sergio Mattarella, (classe ’41, anni 78). Detta figura, nei giorni successivi alle elezioni, interroga i vari partiti, cercando di intuire nei punti di vista di ognuno le possibili alleanze. E’ in tale delicatissima fase che il Presidente della Repubblica sceglie il futuro Presidente del Consiglio, scelta compiuta sulla base dell’esito elettorale ma soprattutto delle consultazioni. Il nostro articolo 93 della Costituzione dispone: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, e su proposta di questo, i ministri“. E’ pertanto tale figura ad eleggere il cardine del nostro sistema governativo. Una volta individuato il capo del Governo, quest’ultimo dovrà essere “confermato” dal Parlamento attraverso un voto in cui gli viene concessa la “fiducia”, ossia la possibilità di governare, in nome del popolo italiano. A sua volta, il Presidente della Repubblica non è eletto dal popolo, ma è votato dal Parlamento in una seduta comune (cioè con le due camere riunite contestualmente). Pertanto, l’unico compito del popolo italiano è quello di esprimere una preferenza circa la composizione del Parlamento, dopodichè la sua funzione “diretta” cessa. Tutte le altre figure vengono determinate a catena, in modo mediato ed indiretto dal Parlamento e dagli altri organi costituzionali.

Veniamo ad un esempio pratico. Nelle ultime elezioni politiche, tenutesi nel marzo 2018, i risultati circa il Senato sono stati i seguenti: Lega 17,62% (corrispondente a 37 seggi); Forza Italia 14,47% (corrispondente a 33 seggi); Fratelli d’Italia 4,26% (corrispondente a 7 seggi); Movimento cinque stelle 32,21% (68 seggi); Partito Democratico 19,12% (43 seggi), Liberi e Uguali 3,27% (4 seggi). Nonostante la destra italiana unita avesse un considerevole numero di seggi (77) a fronte dei seggi della sinistra italiana e dei pentastellati, le divisioni inscindibili interne ai partiti della destra hanno portato a faticosissime consultazioni (lo sono sempre ma in quel caso furono particolarmente contraddittorie). Si pensi che a fronte di elezioni tenutesi il 4 marzo, il Presidente della Repubblica arrivò a incaricare Conte di formare un governo solo il 31 maggio successivo. Infatti, dalle consultazioni erano emersi punti di contatto tra il partito della Lega e il partito pentastellato, ma i due rispettivi leader politici (Salvini e Di Maio) non riuscendosi ad accordare su chi dei due dovesse essere Presidente del Consiglio decisero di affidare l’incarico ad un terzo “incolore” assegnandosi ciascuno il titolo di “vicepremier“. Una sorta di “compromessone” storico. La scelta del capo del Governo, pertanto, ricadde su Giuseppe Conte. Stimato avvocato e professore di diritto privato, al momento della scelta era estraneo alla vita pubblica del Paese, non avendo partecipato ad alcuna campagna elettorale politica né al dibattito pubblico. Fu proprio ciò a favorire la sua scelta, in quanto era “terzo” a tutti gli effetti: il mediatore perfetto.

Ad avviso di chi scrive, l’operato di Conte, da tecnico ed imparziale, divenne politico il 20 agosto 2019, durante un’animata discussione parlamentare con il leader della Lega, Matteo Salvini, il quale aveva presentato precedentemente una mozione di sfiducia, (ritirata poi durante proprio quella seduta). Il dibattito che si svolse in Senato fu uno dei momenti centrali della politica degli ultimi anni: Conte decise che non si poteva andare avanti con il “Compromessone” che aveva retto fino ad allora, e dopo un’aspra critica all’operato di Salvini, rassegnò le dimissioni e rimise il mandato a governare nelle mani del Presidente della Repubblica. Il tutto comportò una forte battuta d’arresto della Lega (cosa su cui si discusse molto all’epoca) ma comportò soprattutto un’altra conseguenza (su cui forse non ancora si è sufficientemente riflettuto): il “mediatore” ruppe la mediazione, colui al quale era affidato il compito di arbitrare entrò nella partita e giocò la sua mossa: da tecnico si trasformò in politico. Quel giorno nacque un nuovo uomo forte, un nuovo leader italiano, destinato a guidare il Paese ancora lungo, che avrebbe esercitato poteri che nella nostra Repubblica nessuno aveva mai esercitato. Il cambiamento da mediatore a parte in causa fu talmente soffice e silenzioso che nel finire dell’estate 2019 ci fu ben poco stupore quando il nuovo governo, costituito dai Cinque stelle e dal Partito Democratico (formatosi a seguito di nuove lunghe ed estenuanti consultazioni) si ritrovò ad avere come suo leader di nuovo l’ “incolore” Conte.

Il giurista che non aveva mai partecipato ad una campagna elettorale si ritrovò ad essere per la seconda volta Presidente del Consiglio, ma questa volta non più quale mediatore tecnico tra due “vicepremier”, ma quale scelta politica imposta dai pentastellati al Partito Democratico. Si può ben dire che il signor Conte abbia parlato al popolo italiano sempre e solo da Governante, mai da cittadino in cerca di una carica o di una fiducia da ottenere; al massimo ha parlato per mantenere la fiducia nel suo operato ben ferma.

Questo attuale governo, il sessantaseiesimo nella storia della nostra Repubblica si è trovato poi ad affrontare la pandemia di Coronavirus, e lo ha fatto stravolgendo la nostra realtà normativa ai limiti della correttezza costituzionale (non sono pochi gli uomini politici e i costituzionalisti che gridano all’incostituzionalità). Da tutto ciò si possono trarre alcune considerazioni di carattere pratico. La percezione degli autori, per quel poco che vale, è che il popolo italiano aspiri da tempo alla possibilità di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri. Da più parti, in modo inappropriato, ci si chiede “chi ha eletto questo presidente?“; al di là dell’errore di carattere giuridico è evidente che i cittadini sentano crescere il bisogno di costruire un collegamento diretto con una figura sempre più importante ma sempre meno adeguata alle sfide del presente. Quali sono dunque i limiti del Presidente del Consiglio? Hanno carattere prevalentemente costituzionale o la legge elettorale stessa gioca un ruolo nel limitare la scelta e successivamente l’azione del capo del Governo? C’è stato un tempo nella storia della nostra repubblica in cui i nostri nonni avevano la possibilità di confrontarsi apertamente e costantemente con un parlamentare eletto nel loro territorio. Questa possibilità, considerata una stranezza oggi è appunto una stranezza, un retaggio di un momento in cui il dialogo tra l’elettorato attivo e l’elettorato passivo era costante. Cosa ha rotto l’equilibrio che vedeva la democrazia italiana fondarsi sul confronto? Due questioni principali: una serie di leggi elettorali confuse fondate sul presupposto delle liste bloccate e un graduale allontanamento della classe dirigente dalle richieste degli italiani, sempre più bisognosi di poter ricominciare un dialogo diretto non solo con il Parlamento ma anche con il Governo. In un quadro sempre più confuso, ragionare sulla possibilità tuttavia di ridefinire il ruolo del Presidente del Consiglio appare sempre più difficile (considerato inoltre il fatto che ogni volta che si tenti di cominciare un dibattito sulla possibilità di riformare la Carta si sbandieri immediatamente da più fronti lo spettro del fascismo…). Il dubbio che ancora una volta si pretenda di gestire la cosa pubblica non sulla base di osservazioni empiriche ma sulla base esclusiva di vuote ideologie rimane…Ma rimane anche la necessità di avvicinare il prima possibile, di nuovo, l’elettore all’eletto e quindi garantire che il governo e il suo capo siano effettivamente rappresentanti di una maggioranza definibile. Non spetta a noi, in questa sede definire in così poco tempo una strategia ma la voglia dei cittadini di confrontarsi direttamente con le istituzioni ci invita a sollecitare l’attenzione del lettore con crescente vigore sull’emergenza democratica in atto da tempo.

Antonio Albergo; Nicola De Vita

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