Scrivo queste semplici parole per dare voce al dolore che, inesorabile, ogni giorno ferisce il mio animo da fine febbraio. Difficile rimanere insensibili ai bilanci quotidiani. Difficile dimenticare le tante istanze di chi desidera ripartire. Difficile infine dare una risposta equa, che possa includere la salute e gli interessi di tutti i cittadini coinvolti.

Non è stato complicato invece capire chi il 22 febbraio, al fine di contenere la diffusione del nuovo focolaio di Codogno, decideva di chiudere le scuole e università in Lombardia. Quelle parole risuonavano senza alcun ostacolo nella mia mente. E poi si aggiunsero le notizie di amici colpiti, professori ricoverati, fatti che resero manifesta l’evidenza di quello che stava accadendo. Realizzare in poche ore che cosa sarebbe accaduto nelle settimane successive ha generato in me molta preoccupazione. Non ci potevo credere, perché non sono un indovino, che in maniera distaccata sostiene di poter leggere quello che sarà. L’apprensione, quel sentimento umano, era invece più che mai presente, speravo infatti di ricordare male quello che avevo letto qualche anno prima su un manuale di medicina interna. Lì, in una giungla di righe, paragrafi e capitoli stampate su pagine così fini da sembrare carta velina, avevo letto di cose che presentavano tante analogie con la situazione attuale. Possibile che le conoscenze acquisite, anche a prezzo del sacrificio di molti, ci avessero lasciati inermi di fronte a questa nuova minaccia?

Siamo nel novembre del 2002, provincia del Guangdong. Un nuovo virus della famiglia Coronaviridae, endemico nei pipistrelli, si trasferisce all’uomo. È l’inizio di una nuova epidemia. Non è facile capire che un soggetto è affetto da polmonite, figuriamoci intuire che quello è un caso di una nuova forma epidemica. E invece qualche mese più tardi al French Hospital di Hanoi, Vietnam, viene identificato per la prima volta il virus della SARS, il cui acronimo non lascia dubbi, Severe Acute Respiratory Syndrome. Paziente zero è un uomo d’affari americano, ricoverato per difficoltà respiratori. A dare l’allarme è un medico italiano, Carlo Urbani, originario di Calstelpiano, non lontano da Ancona. Dopo la specializzazione in malattie infettive, sente di dover mettere le competenze acquisite in ambito universitario a servizio di chi è più fragile. Come presidente di Médecins Sans Frontières – Italia, partecipa alla delegazione che ritira il Nobel per la pace assegnato alla associazione nel 1999. Successivamente si trova in Vietnam come consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quell’ospedale viene chiamato per dare un parere. Tosse secca, febbre alta, polmonite bilaterale, grave compromissione dello stato generale. Come ogni scienziato si pone delle domande. Scopre che l’uomo è reduce da un recente soggiorno a Hong Kong. In quella città, che verrà poi identificata come un focolaio principale di contagio, era transitato qualcuno proveniente dalla provincia del Guangdong. Passano i giorni, cresce in molti la preoccupazione per la nuova forma di malattia. Il medico italiano non si arrende, caparbio raccoglie campioni. Visita i nuovi pazienti e capisce al volo. Isola l’intero piano del nosocomio, cerca di intuire che tipo di trattamento riservare a quei nuovi casi. E lancia l’allarme. Difficile immaginare che cosa avrà pensato quando si apprestava a comunicare al mondo intero che, senza accorgersi, si era già nel bel mezzo di una nuova epidemia. Epidemia che poteva mettere a rischio l’intera umanità.

I primi di marzo si reca a Bangkok per un convegno, ma durante il volo accusa i primi sintomi. Anche lui ha contratto l’infezione. Senza indugio si fa ricoverare in isolamento. Morirà il 29 marzo, invitando i colleghi che lo avevano in cura ad analizzare al microscopio i suoi polmoni, ultimo tentativo di aggiungere nuovi elementi allo studio della malattia. Anche grazie alla sua tempestiva comunicazione il Vietnam e poi il resto degli stati del Mondo sono riusciti ad arginare la diffusione dell’epidemia.

In questi mesi si sta diffondendo una nuova epidemia. Tante le analogie con quanto vi ho appena raccontato, più drammatici invece i numeri.

È proprio vero che ti rendi conto del valore delle cose quando non ne puoi più disporre. Difficile accettare che quanto di più umano possa esistere, la relazione con l’altro, possa oggi essere occasione di contagio. E danneggiare di conseguenza una terza persona. E forse tante altre. Così la salute di un altro ora diviene mia responsabilità, e viceversa.

Poi pensi a chi è stato colpito. La comunità si stringe attorno al dolore. E pensi a chi da un paio di mesi, confinato in casa, non è più libero di respirare, o a chi invece lotta ogni giorno per cercare di farlo autonomamente. Rifletti ancora e realizzi, assaggi il significato della parola empatia. Non riesci a immaginare cosa ha provato chi non ha potuto salutare i propri cari nel momento più difficile, o chi ha vissuto diversi giorni interloquendo con figure dall’aspetto umanoide, avvolte negli scafandri. Umanità spazzata dalla malattia. Dov’è la dignità in tutto questo?

Poi ti abbandoni ai racconti di chi lavora sul campo, e che ti assicura che ha fatto il possibile, è stato vicino a chi soffriva. Vedi la mobilitazione spontanea di tanta parte della società, attenta a prendersi cura delle fasce di popolazione più deboli, quelle che hanno più difficoltà ad affrontare questa situazione. Ti stupisci inoltre del contributo di tutti, uniti nel cambiare le proprie abitudini al servizio della comunità. Percepisci infine l’aspetto più importante. Molti cittadini si sono attivati, ragionano e propongono idee, soluzioni, aiuti concreti per organizzarci e rispondere a questa nuova sfida. E realizzi quindi l’umanità di molti, tanti troppi per essere una semplice casualità. È un valore che ci contraddistingue e dobbiamo esercitarla, sempre e d’ora innanzi ancor di più. Ti rialzerai, Italia!

Comments to: Liberi di respirare

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