il 2020, è chiaro a tutti ormai, rappresenta il culmine di una rivoluzione culturale in lavorazione da diversi anni. Sebbene la crisi portata dalla onnipresente pandemia possa sembrare il più immediato colpevole, lo scenario sociale e politico degli ultimi anni rivela all’osservatore più attento il vero catalizzatore del nuovo pensiero che domina la sfera degli ideali promulgati da i più disparati attivisti.

Parliamo di intersezionalità, un concetto ancora abbastanza estraneo alla mente del lettore italiano, ma che, come molti neologismi importati dallo scenario anglofono, deve essere compreso a fondo perché ha iniziato a dare forma a politiche sociali di rilevanza in tutto l’occidente, Italia compresa.

Kimberlé Krenshaw, giurista statunitense, coniò il termine nel 1989, utilizzandolo per la prima volta in un suo articolo che andava a ispezionare come le corti statunitensi applicavano, ai tempi, le leggi anti discriminatorie ai casi di violenza sulle donne di colore, e come etnicità e sesso interagivano sulle decisioni legali: Per fare un esempio, una donna di colore potrebbe essere vittima di un assalto non per razzismo contro individui di colore e non per sessismo contro le donne, ma per causa di una combinazione di entrambi i fattori.

L’intersezionalità nasce qui, nel seno del femminismo di terza ondata, come pensiero teorico atto a descrivere le connessioni tra discriminazioni e privilegi assoggettati ad un individuo in virtù della propria identità e status sociale, postulando inoltre che le femministe caucasiche ignorano come la loro etnicità differenzi la propria esperienza dalle “colleghe” di colore, partecipando quindi alla loro oppressione.

Iniziano quindi a proliferare i concetti di privilegio razziale, di minoranza nella minoranza e di multipli strati di discriminazione, tutti aventi come fonte il cosiddetto “patriarchismo” dell’uomo bianco che irradia oppressione come un sole malsano su tutti coloro che non ne fanno parte.

La domanda che potrebbe sorgere spontanea alla persona comune, sia essa donna od uomo, di qualunque etnicità, che vive oggi tempo nell’epoca e nella società meno discriminatoria della storia collettiva dell’umanità, grazie in grandissima parte al progresso portato dalle femministe e gli antirazzisti del passato è: “perché parlare di intersezionalità nel mondo moderno?”; la risposta degli attivisti è che, contrariamente a tutti gli indicatori, ora più che mai i privilegiati colgono il frutto del loro privilegio e gli oppressi soffrono per la loro oppressione.

Ora, siamo chiari: sarebbe errato proclamare che la discriminazione è acqua passata e che non ci sono assolutamente problemi di razzismo o sessismo nel 2020, ma è proprio qui che torna in gioco l’intersezionalità: perché, nonostante i tanti progressi, continuiamo a incontrare tali problemi? Secondo gli attivisti intersezionalisti la causa va trovata nella struttura del potere, nella gerarchia, che trascende gli individui e rivela un razzismo fondato… nelle fondamenta stesse del sistema. Sposando questo framework teorico con altre ideologie come il Marxismo, il relativismo ed il postmodernismo, il commentatore sociale odierno inizia a congetturare su un quantitativo francamente infinito di tipologie di discriminazione: sorge così la Critical Race Theory, ovvero Teoria Critica Razziale, che ha come presupposto principale la onnipresenza del suprematismo bianco propagata dal passato al presente grazie ai rispettivi sistemi legali di ogni stato occidentale.

Certamente il pregiudizio ed il razzismo sono problemi delicati ai quali bisogna accostarsi con la risolutezza e l’impegno atti a risolverli in nome del progresso sociale. Ma come spesso delineato da Pensiero Divergente, per risolvere problemi complessi c’è bisogno di dialogo: dialogo che tiene conto di punti di vista tanto disparati tanto quanti sono i partecipanti, come strumento per arrivare ad un’approssimazione quanto più vicina alla verità possibile, per poi distillarla in una forma applicabile alla realtà affinché tutti possano trarne beneficio. Ed è qui che iniziano ad arrivare i problemi: l’intersezionalità, nella sua forma corrente, incorporata nella Critical Race Theory, non ammette il dialogo: Chi la contesta viene automaticamente designato come privilegiato, crudele, bigotto e discriminatorio.

Il concetto quindi si propaga, senza oppositori ideologici che possano moderarlo, all’interno di circoli che fungono da camere dell’eco, distorcendosi e diventando sempre più estremo. Questa scuola di pensiero ha creato, tramite questo meccanismo, veri e propri corollari accettati come dogma dai suoi sostenitori, culminando nella sua nuova, ultima, più pericolosa interpretazione: l’occidente è intrinsecamente razzista e l’unico modo per porre rimedio a questa verità assoluta è smantellare le istituzioni e ricostruirle secondo principi basati sull’intersezionalità. Possiamo già vedere le conseguenze tutto ciò negli USA, dove, tra le statue dei confederati sono state fatte capitolare nei recenti avvenimenti anche quelle di Abraham Lincoln, 16° presidente degli Stati Uniti, famoso per aver promulgato il Proclama di emancipazione che decretò la liberazione di tutti gli schiavi.

Arriva quindi il paradosso: perché distruggere il simbolo del personaggio storico che più ha contribuito all’emancipazione razziale ed alla fine della schiavitù negli Stati Uniti? La risposta, secondo gli intersezionalisti, sta nell’assioma proposto poco prima: il razzismo è una proprietà emergente degli Stati Uniti e di tutti i paesi che in passato sono stati potenze coloniali. Questo vuol dire che qualunque cosa appartenga, o sia un simbolo di tale paese è anche un simbolo del razzismo proprio dello stesso. Come suggerisce il nome della teoria, il razzismo e la discriminazione intersecano tutto, diventano parte del tutto, non è possibile districarlo se non ripartendo da zero. Il colonialismo gioca inoltre un gran ruolo nelle manovre politiche proposte e spinte dagli esponenti dell’ideologia: “decolonizzare” è infatti il termine utilizzato per descrivere questo processo di smantellamento delle istituzioni.

I paradossi non finiscono qui, poiché un’altra conseguenza del dogmatismo è la visione delle minoranze ed in particolare la comunità di colore come identità uniche, uniformi, fondamentalmente stereotipate, tutte aderenti alle stesse regole e ognuna assoggettata a diversi sistemi di oppressione. Questo vuol dire che secondo l’attivista intersezionalista statunitense, l’individuo di colore che non crede ciecamente al dogma non è un vero afroamericano, bensi un “Uncle Tom“, un traditore della propria identità raziale. Esempio recente di ciò è stata l’aggressione di Philip Anderson, un ragazzo di colore che si trovava ad un raduno a favore della libertà di espressione, da lui organizzato, appena prima del quale è stato aggredito da un individuo bianco. Il risultato di ciò? Anderson ha perso due denti, e per aggiungere insulto ad ingiuria, è stato anche bannato da Twitter affinché non potesse condividere l’accaduto. Nessuno tra gli intersezionalisti ha accusato l’aggressore di essere discriminatorio nonostante il suo crimine sia stato palesemente causato dall’odio, e nessuno tra gli attivisti ha visto in Anderson una vittima, bensì il ragazzo rappresenta per loro un’ennesimo propagatore di oppressione. Persino secondo l’ex vice-presidente Joe Biden, ora candidato alla presidenza degli Stati Uniti: “se non sai se votare per me o per Trump allora non sei nero”

Il risultato di tutto ciò è allarmante: L’intersezionalità e la Critical Race Theory vanno ad aggiungersi alla crescente lista di ideologie, (molte delle quali nate nobilmente in nome dell’eguaglianza) portate all’estremo e diventate inoppugnabili grazie ad un cieco dogmatismo, e che, in virtù di tale dogmatismo, vanno ad assediare l’ormai vacillante diritto alla libertà di espressione nell’occidente.

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