Cosa resta di tutte quelle buone intenzioni con le quali siamo stati torturati nei mesi di marzo e aprile?
Cosa resta della speranza di migliorare dopo la quarantena o gli arcobaleni?
Cenere.
Nelle ultime due settimane, il mondo ha gradualmente dimenticato cosa significhi “distanziamento sociale” e in paesi come gli Stati Uniti e la Francia i cittadini hanno (ri)cominciato a protestare.
Pur condannando ogni violenza, non è possibile non interrogarsi approfonditamente su tutto quello che sta accadendo e non è possibile chiedersi se il problema sia solo ed esclusivamente razziale.
Non ho avuto la possibilità di viaggiare negli Stati Uniti e purtroppo la mia conoscenza di quel paese è limitata, tuttavia conosco la Francia e grazie alle amicizie parigine della mia famiglia posso permettermi di pensare che le discriminazioni razziali perpetrate nei confronti di chi ha la pelle di un colore diverso non siano la ragione esclusiva del malcontento generale. Le discriminazioni nei confronti di chi vive nelle periferie, nelle Banlieu, genera, inevitabilmente, disuguaglianze di natura economica e sociale ed è quindi impossibile non riflettere sull’origine e la natura di questo elemento così destabilizzante.
Se il razzismo provochi disuguaglianze sociali o se le disuguaglianze sociali siano l’origine del razzismo è una domanda molto importante a cui è difficile trovare una risposta; tuttavia, il problema resta e le strade dell’Occidente bruciano.
Cosa sta succedendo quindi?
Negli Stati Uniti, a causa del Coronavirus, ben 20,5 milioni di persone hanno perso il lavoro solo nel mese di aprile, (https://www.ilsole24ore.com/art/la-disoccupazione-usa-vola-147percento-mai-cosi-alta-grande-depressione-ADEShGP) e non è possibile, anche in questo caso, non chiedersi di conseguenza se anche negli Stati Uniti l’acuirsi delle disuguaglianze socio-economiche non sia la vera ragione dell’odio di una buona fetta della popolazione.
Il razzismo è una cosa bruttissima e innegabile ma siamo veramente sicuri che ciò che ispiri le persone a protestare e a spaccare le vetrine sia solo l’indignazione per il caso Floyd?
Rispondere anche a questa domanda è difficile ma che qualcosa nel mondo di oggi non funzioni è evidente.
La mia riflessione ha ancora una volta origini lontane e parte dal ricordo di un’intervista a Pier Paolo Pasolini in cui si interrogava sul ruolo dell’individuo nella società dei consumi (https://www.youtube.com/watch?v=TjLjJsBYU3s). Nell’intervista in questione, l’autore si poneva una serie di domande sui cambiamenti della società in corso negli anni ’50 e denunciava apertamente come la società trasformasse sempre di più gli individui in consumatori seriali sempre più insoddisfatti.
Come Pasolini, anche io non posso dare risposta a tante domande, ma quasi settant’anni dopo è difficile non domandarsi se l’ossessione per i consumi non ci abbia effettivamente svuotati.
Cosa lega di conseguenza Pasolini a Floyd dopo tanto tempo? Esiste forse un collegamento tra una società sempre più veloce e la rabbia delle persone?
Per decenni, abbiamo creduto che possedere cose ci potesse definire. Ma cosa nasconde il mondo perfetto che abbiamo costruito? Dubbi, insoddisfazioni, crescente depressione (soprattutto tra i più giovani) e naturalmente, come abbiamo già visto, disuguaglianze.
Chi scrive resta un convinto sostenitore dei benefici della libera impresa, poiché ancora convinto che la concorrenza e la competizione possano essere dei positivi stimoli per la creatività e lo sviluppo.
Tuttavia, chi scrive non può, ancora una volta non chiedersi in conclusione se il mondo non abbia superato un limite…
In cambio della comodità, perché abbiamo svenduto la nostra razionalità e le nostre emozioni?
Pur sapendo che indietro non è possibile tornare, chiedersi quale possa essere un futuro alternativo è importante. Proviamo ad uscire dalla dicotomia contrapposta di capitalismo-comunismo e chiediamoci se possa esistere piuttosto un capitalismo lento, più sostenibile…un capitalismo meno frenetico dove la ricchezza di un’azienda non si misura esclusivamente guardando il profitto…
I mali della democrazia non si curano con meno democrazia, ma con persone e processi migliori. I mali dell’economia di mercato non si curano quindi con meno mercato, ma con un mercato diverso, un mercato più creativo dove il lavoro non è esclusivamente finalizzato a produrre oggetti di consumo.
Con la perdita della speranza che le cose potessero migliorare e il conseguente dilagare della paura di essere poveri e inadeguati, la società occidentale ha perso di vista la direzione: dimenticate la ragione di Apollo e l’ebbrezza di Dioniso, dimenticate la nostra storia perché ciò che resta della bufera di parole sprecate durante la quarantena è il caos senza scopo.
Mi duole avere più dubbi che risposte davanti al disgregamento sempre più inesorabile della nostra civiltà ma senza riflessione non possono esserci scorciatoie.
Chi ha detto che dobbiamo continuare ad inquinare solo ed esclusivamente per produrre cose che poi, una volta acquistate, riterremo inutili? Perché dobbiamo rispettare solo le regole di un mercato sempre più imprevedibile? Perché dobbiamo rinunciare alle nostre vite e accettare il ricatto di un sistema che non accetta errori? Perché dobbiamo vivere il lavoro esclusivamente come una necessità e rinunciare di conseguenza ad esprimere i nostri migliori talenti perché, appunto, il mercato ci chiede una cosa piuttosto che un’altra?
Troveremo una risposta alla necessità di ripensare le nostre priorità? Sapremo discutere seriamente della bellezza di un tempo lento? O come al solito, dimenticheremo?
Non ho la pretesa di definire qui, in questa sede, una proposta, un’alternativa, ma ho voglia di ricordare ancora una volta, in modo divergente se vogliamo, che di fretta si muore.
Classe 1994, lettore vorace dall’età di sei anni e autore dei romanzi “L’alba di sangue” e “Il regno di Romolo”.
Di me hanno detto che sono un “egocentrico” ma non ho ancora capito perché.
Credo di avere tuttavia molto in comune con i liberali di una volta e di essere un insaziabile ricercatore di novità.
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Show comments Hide commentsL\’impressione che Pasolini ebbe 50 anni fa trova conferma, ammesso che ce ne sia bisogno, nelle proteste di questi giorni negli USA. Negli anni 70 molte manifestazioni finivano per danneggiare e distruggere attività private, come succede adesso. Ma allora l\’obiettivo era distruggere il negozio di una certa marca, una banca… per colpire il simbolo che esso rappresentava. Oggi, le immagini che tutti vediamo mostrano come quelli che distruggono e saccheggiano lo facciano per prendersi con la forza ciò che vogliono ma non si possono permettere. I saccheggi di questi giorni non sono una critica alla società di consumo, a un mondo che si vuole cambiare; è il grido disperato di chi se ne sente escluso e vuole entrare a farne parte ad ogni costo. La società rischia davvero di ridursi a un insieme di consumatori insoddisfatti, e occorre chiedersi se sia davvero il mondo in cui vogliamo vivere. Grazie Nicola per questo spunto di riflessione.