Il 17 dicembre 1939 il capitano della marina del terzo Reich Hans Langsdorff affondò l’incrociatore pensante “Admiral Graf Spee” nel Rio de la Plata perché braccato dalla marina inglese.  Sulla spiaggia di Montevideo si era radunata una folta schiera di spettatori a guardare sbigottiti l’enorme colonna di fumo nero che saliva dall’orizzonte. Tra di loro vi era anche una bambina di poco meno di 10 anni che rimase impressionata dal genio e dalla follia dell’essere umano che prima costruisce enormi macchine raffinatissime da scagliare contro i suoi simili e poi le distrugge con la sua stessa mano.

Quella bambina ha compiuto 90 anni l’anno scorso. Dopo la seconda guerra mondiale ha visto l’uomo andare sulla luna, due dittature, varie crisi finanziarie e l’avvento della tecnologia informatica. Oggi si trova chiusa in una casa del quartiere residenziale “el Prado” di Montevideo a fronteggiare un’ennesima crisi che questa volta più che mai potrebbe avere la meglio su di lei. Io sono suo nipote.

Quando le telefonai per sapere come stava e se aveva voglia di raccontare qualcosa riguardo alla crisi del coronavirus in Uruguay, con voce allegra e senza esitazione accettò.

Quello che segue è il suo messaggio per tutti noi.

L’Uruguay è un piccolo paese incastonato tra i due giganti sudamericani: il Brasile e l’Argentina. Ha una superficie poco più grande della metà di quella italiana ma una popolazione di appena 3,3 milioni di abitanti di cui circa la metà sono nella capitale Montevideo. Il resto del paese è aperta, dolcemente ondulata, bellissima campagna. Il Pil uruguayano è stato nel 2017 di poco meno che $ 80 miliardi principalmente dovuti all’allevamento e all’agricoltura.

Insomma, stiamo parlando di un paese piccolo, scarsamente popolato e povero.

Come tutti sappiamo, l’America Latina sta attraversando un momento storico complicato: la recessione economica e gli scandali di corruzione in Brasile, la crisi politica in Argentina, la guerra civile in Venezuela e rivolte popolari in vari altri stati. Nonostante tutto, l’anno scorso in Uruguay si sono tenute le elezioni, vinte dal “Partido Nacional” (conservatori) dopo 10 anni di governo del partito di sinistra “Frente Amplio”, in modo del tutto democratico e tranquillo.

Allo scoppio della crisi del Coronavirus fu subito chiara una cosa: bisognava agire in fretta per proteggere le fasce più povere della nazione, ovvero quella fetta della popolazione che vive alla giornata nei “cantegriles” di Montevideo (simili alle favelas brasiliane). Si tratta di persone che non hanno nessun ingresso costante, che vivono in condizioni igieniche molto precarie, che non mangiano se non escono di casa a percorrere le strade della capitale con il loro carrellino sgangherato per raccogliere qualcosa nella spazzatura che possa essere rivenduto. La prima preoccupazione degli uruguayani fu che non appena si fosse diffuso il virus in uno dei cantegriles l’epidemia sarebbe esplosa portata in giro sui loro carretti.

Il sistema sanitario non era pronto a subire un’ondata di contagi. Era evidente che con le risorse in quel momento disponibili non si sarebbe riusciti a fare fronte ad un’epidemia su vasta scala. Bisognava quindi evitarla ad ogni costo giocando di squadra.

Il nuovo presidente andò varie volte in televisione e chiese alla nazione di restare a casa, che ciascuno si facesse responsabile delle proprie azioni per limitare la propagazione dell’epidemia. Spiegò le cose come stavano senza nascondere il pericolo ma anche senza minacciare nessuno o additare dei capri espiatori. Propose delle norme facili che potessero essere comprese e adottate da tutti. Non assunse mai poteri straordinari né minacciò mai di farlo.

Il paese stava correndo sulla lama del rasoio ma preferiva fare appello al senso civico dei suoi cittadini piuttosto che rinunciare alla democrazia. E il paese ascoltò il suo presidente e si chiuse in casa.

Il presidente Lacalle Pou si rese conto che per traghettare il paese doveva cominciare lui a dare l’esempio. E così si tagliò lo stipendio fin da subito. Poi convinse i senatori a tagliarsi a loro volta lo stipendio e infine tutti i dipendenti statali con alto stipendio. Tutti questi soldi risparmiati confluirono, e confluiscono ancora oggi, in un fondo per superare la crisi ed aiutare i privati a ripartire.

Contemporaneamente, molte delle aziende più grandi cominciarono a fare delle campagne per rifornire gli ospedali, comprare disinfettante e mascherine ed aiutare la popolazione più povera. Perfino i semplici cittadini si organizzarono per portare cibo e almeno un po’ di igiene nei cantegriles.

Ad oggi ci sono stati in totale 746 casi e 20 morti. I primi casi sono stati registrati il 12 marzo e il picco dei casi attivi è stato raggiunto il 29 marzo.

La strategia sembra aver funzionato.

Che gli uruguayani siano particolarmente bravi a fare squadra ce lo ricordiamo tutte le volte che guardiamo un mondiale di calcio quando un piccolo paese riesce quasi sempre ad avere una squadra tra le migliori al mondo; anche nel caso del Covid-19 l’Uruguay ha dimostrato di saper essere un popolo unito, convinto dei propri valori democratici e coraggioso.

La famosa “garra charrua[1]” degli uruguayani ha avuto un ruolo importante. Il resto lo ha fatto la conformazione stessa del paese che con la sua bassa densità abitativa ha fatto sì che i contatti fossero di per sé limitati. Oggi si sta lentamente tornando alla normalità: hanno riaperto le scuole di campagna e i cantieri.

Durante tutta la crisi, inoltre, l’Uruguay si è distinto per aver organizzato molti voli sanitari per portare a casa i cittadini da varie parti del mondo, oltre ad aver accolto una crociera di turisti australiani e neozelandesi con diversi casi di Covid-19 a bordo, di cui alcuni anche gravi, che nessun porto voleva ricevere.

E i vicini? In Brasile, a quanto pare, regna il caos; in Argentina (unica vera colonia italiana) è stato introdotto un lock-down assoluto come in Italia ma con così tante eccezioni che alla fine è cambiato poco.

Come dicono gli uruguayani:<<Noi siamo un piccolo paese modello>>. Sanno che quello che hanno fatto ha dell’eccezionale: evitare una crisi sanitaria che avrebbe certamente messo in ginocchio il paese grazie all’unità nazionale che va oltre le barriere di partito, status sociale o ricchezza personale; rimanere durante tutto il tempo un paese democratico, aperto e pronto ad aiutare chi era in difficoltà. In tempi normali non ci sarebbe nulla di cui stupirsi, ma in questo momento questi semplici gesti hanno assunto un valore enorme.

La voce di mia nonna conclude dicendo:<<Quello che stiamo vivendo è terribile ma è anche un segno che dobbiamo cambiare: le nostre società sono diventate inique, non è possibile che ci sia una differenza di redditi così elevata! Non è giusto che ci sia gente così povera.>>

E poi aggiunge:<<Ce la faremo a costruire un mondo migliore. Se l’abbiamo già fatto una volta, vuol dire che lo possiamo fare di nuovo>>

Ora spetta a noi darsi da fare.


NB: “La lucha es entre todos”: si combatte tutti insieme. Frase del presidente uruguayano Lacalle Pou nel discorso alla nazione del 23 marzo in cui esortava la popolazione a restare in casa

[1] La grinta dei Charrua: tribù indigena che abitava all’incirca nell’odierno Uruguay famosa per essere estremamente aggressiva e tenace oltre che cannibale

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Comments to: La lucha es entre todos
  • 24 Maggio 2020

    Straordinari : il nipote, la nonna e il contenuto!

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