A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dike, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.
(Antigone, vv. 450-457)
Celeberrimo è questo passo, come celeberrima è la tragedia da cui è tratto. Il capolavoro dell’Antigone messo in scena da Sofocle è certamente una delle opere più profonde e importanti della storia dell’Occidente, tanto che a distanza di circa 2500 anni continua a far parlare di sé e, soprattutto, a far riflettere sul messaggio che ha voluto veicolare. Con questo pezzo, tuttavia, non si intende dare una interpretazione precisa di questo messaggio bensì di inserire il problema che da esso emerge in tutta la sua purezza all’interno di un dibattito filosofico ben più ampio che è quello del rapporto tra diritto naturale, che si vedrà essere innatamente disponibile all’umanità, e diritto positivo, posto dall’alto dagli umani. Il problema messo in scena riguarda un decreto, emesso dal re tebano Creonte, che vietava la sepoltura di Polinice, caduto in battaglia nella guerra fratricida per il potere della città di Tebe. Antigone, sua sorella, decide di sfidare il decreto reale e si reca sul campo di battaglia desolato a compiere il rito della sepoltura per il fratello. Il passo sopra citato racchiude la tesi della sua difesa: lei ha violato il decreto reale perché entrava in contraddizione con leggi superiori, antiche quanto gli dèi stessi e che neppure loro hanno promulgato, leggi a cui sottosta persino Zeus, il padre di tutti gli dèi, e che Dike, ovvero la Giustizia stessa, non ha mai fissato eppure si propone affinché vengano rispettate. Ma quali sarebbero queste leggi non scritte, al di sopra di tutto e tutti, o meglio al di là di tutto e tutti, alle quali nessun mortale può sottrarsi in alcun modo? Ecco che per la prima volta nella storia dell’Occidente appare il concetto più simile a quello moderno di ragione, inaspettatamente in un teatro greco e circa un millennio prima che tale ragione divenisse la cifra della filosofia moderna. Cosa ha fatto Antigone, seppur mossa dalla pietà, se non applicare un processo razionale su un decreto reale? Non ha forse rinvenuto, oltre e prima della legge civile e positiva, dei principi razionali insiti nella coscienza umana che hanno messo in discussione il decreto di Creonte?
A tal punto è inevitabilmente necessario chiedersi cosa sia la “legge” oggi. Generalmente infatti ci limitiamo a considerare come “legge” le prescrizioni a cui sottostiamo nella nostra vita. In realtà la legge deve avere delle caratteristiche ben precise. Prima di tutto l’astrattezza. Una legge non può mai riferirsi ad un fatto o ad un posto specifico. Non vi sarà mai una legge per dire che in un preciso incrocio di una precisa città va rispettata la precedenza a destra. Una buona legge deve poter parlare di tutti gli incroci di tutte le città. In secondo luogo la legge deve essere generale, ossia non riferita ad uno specifico individuo, ma applicabile a tutti gli individui che si trovino a compiere il fatto che la norma descrive. In terzo luogo dev’essere lecita, ossia rispettare le “leggi più forti ” di lei: nel nostro ordinamento giuridico la “legge più forte” è la Costituzione, subito dopo vi sono le leggi europee e poi vi è la legge parlamentare. Solo una legge rispettosa di questa gerarchia è considerabile lecita (se non lo è, un’ apposita Corte, detta Corte Costituzionale, dopo un’attenta analisi può dichiararla “incostituzionale” e farla disapplicare definitivamente).
Ora il problema è che noi abbiamo una legge che per definizione è astratta e generale, mentre tutto quanto accade nella realtà è concreto e specifico. E applicare un precetto generale e astratto ad un caso specifico, (operazione detta nel gergo tecnico sussunzione), comporta necessariamente un margine di discrezionalità.
Napoleone, che aveva intuito tutto ciò, affermò che il giudice, sotto il suo impero, sarebbe dovuto essere solo la “bouche de la loi ” ossia semplice bocca di legge. Con ciò si intendeva che il giudice avrebbe dovuto interpretare il meno possibile, avere uno spazio discrezionale minimo, se non nullo: essere sostanzialmente un neutro applicatore di quanto scritto. Ciò d’altra parte era perfettamente coerente con l’ideologia illuministica dominante all’epoca, secondo la quale tutto era misurabile, accessibile e governabile all’uomo che aveva la giusta perizia e la corretta chiave interpretativa. Esempio lampante di questa logica si rinviene chiaramente nelle tattiche militari dell’epoca. Quadrati di soldati immobili sul posto, i quali, meccanicamente, come una catena di montaggio, ricaricavano il fucile, miravano, facevano fuoco e ricominciavano, tutti immobili, precisi al loro posto, mentre ricevevano scariche di fuoco nemico. Nessuno scappava, nessuno sbagliava un movimento: erano ingranaggi di uno strumento perfetto, studiato matematicamente a tavolino. Venivano addestrati appositamente in ogni movimento. Una parte di loro sarebbe inevitabilmente morta (15, 20% a seconda dei casi) ma la restante parte avrebbe abbattuto un numero preciso di nemici in quel settore. E quel numero di nemici abbattuti in quell’intervallo di secondi necessario a sparare tre o quattro volte avrebbe agevolato la vittoria della battaglia. Stesso sistema si voleva improntare alla legge, rendendola matematica.
La storia dimostrò che un giudice di tal tipo non poteva esistere, quantunque le leggi fossero scritte nel modo migliore possibile. Pertanto il diritto vivente, il diritto di oggi, altro non è che un’opinione. Sembra incredibile a dirlo ma è esattamente così. Tutto sta all’interpretazione del giurista che è chiamato ad applicare una legge generale e astratta ad un caso specifico. Il giudice lo fa in fase decisionale, l’avvocato nel cercare di tutelare il proprio assistito, il notaio nello scrivere atti pubblici secondo la volontà delle parti, ecc….
Ciò comporta che nel campo del diritto certezze non ve ne siano. Principi di massima sì, ma mai certezze. Proviamo a prendere un esempio pratico direttamente dal diritto notarile. Vi sono due istituti giuridici molto elementari che ogni studente di giurisprudenza al primo anno padroneggia bene: l’accessione (articolo 934 del codice civile) per cui ogni piantagione o costruzione realizzata sopra un terreno appartiene automaticamente al proprietario del terreno; e la comunione legale (articolo 167 codice civile) secondo cui entrambi i coniugi sono titolari in parti uguali di quanto acquistano, anche separatamente, dopo il matrimonio. Ebbene queste due norme apparentemente cristalline, in alcuni casi, se combinate insieme, compongono un dilemma insolubile (la Cassazione e il Consiglio Nazionale del Notariato non ne sono ancora venuti definitivamente a capo): cosa accade se i coniugi fanno realizzare una villetta su un terreno che appartiene ad uno solo di loro da prima del matrimonio? La villetta sarà del solo proprietario del terreno (come vorrebbe l’accessione) o di entrambi i coniugi (come vorrebbe la comunione legale)? In tal caso è evidente che occorra un’ interpretazione, visto che di per sé le norme non si combinano. E il fatto che più professionisti e accademici abbiano pareri opposti sul punto ci fa rendere conto dell’ampiezza del problema interpretativo. Cosa vogliamo privilegiare nella nostra interpretazione in questo caso? La solidità della proprietà privata individuale o la tutela del sistema familiare? La soluzione dipende in buona parte da questa presa di posizione. Pertanto alla fine, la nostra chiave di lettura, per quanto vorremmo che appaia il più possibile oggettiva, sarà sempre soggettiva, partirà sempre dalle nostre idee naturali…. sostanzialmente sarà un’opinione.
Allora chi è il giurista? Colui che studia le leggi? Direi che questa non è sufficiente come definizione. Basta una riforma in un settore (ad esempio tributario), che un navigato professionista diviene ignorante sul punto come un qualsiasi studente alle prime armi con la materia in questione. Il giurista è sicuramente uno studioso, un intellettuale, ma non è quello che lo definisce. L’unica, vera, fondante caratteristica del giurista è l’attitudine a ragionare sulle norme: a scovarne la Ratio, ossia il Senso, ed adeguarle alla realtà in base ad esso. Il buon giurista non si arrende alla legge, ma la conduce in base al suo senso profondo, che egli è chiamato ad indagare in base alla propria preparazione e interpretare in base alla propria personalità. Una volta, un grande giurista, in visita alla nostra università, fece il seguente commento: il diritto non è una scienza, e non è nemmeno un’arte (sarebbe uno strumento pericolosissimo e malato in entrambi i casi). Il diritto è uno spartito musicale. C’è un foglio con note, pause e ritmo da seguire, ma poi sta alla sensibilità dell’esecutore accordarlo all’uditorio e filtrarlo attraverso la propria sensibilità. Se si chiede a cinque direttori d’orchestra di eseguire la “Gazza Ladra” di Rossini, il brano di base sarà sempre lo stesso, ma le esecuzioni saranno una diversa dall’altra. A volte per piccole sfumature, a volte con differenze quasi abissali.
Pertanto il diritto naturale, che molti legislatori vorrebbero far uscire dalle aule parlamentari, rientra dalla finestra, attraverso l’interpretazione del giurista e la ricerca della Ratio.
Ma cosa deve fare un giurista se si accorge che una ratio è assolutamente sbagliata (come nel caso di Antigone) ? Può provare ad invocarne l’incostituzionalità, ma quando questa venisse esclusa (dal momento che la si valuta alla luce del solo diritto positivo), cosa fare?
Sul punto vi è una specifica questione filosofica secolare, che non possiamo trascurare.
Occorre, insomma, entrare nel vivo del dibattito “giusnaturalistico” sul rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Innanzitutto si sceglie il giusnaturalismo come campo di indagine e riflessione poiché le riflessioni precedenti non sono adatte alla trattazione del problema. Ad esempio, la riflessione che San Tommaso d’Aquino porta avanti sul tema è condotta sul piano della legge (lex) e non del diritto (ius) e, di fatti, la legge naturale (lex naturalis) si configura come traccia sbiadita della legge divina (lex divina) e non è altro che un tramite e un indizio per chi legifera per conformare quanto più possibile la legge civile (lex humana) alla legge divina, non a quella naturale. Diversamente, invece, stanno le cose nel giusnaturalismo, nato dalla riflessione di Ugo Grozio agli albori dell’età moderna (quindi tra il Cinquecento e il Seicento del secondo millennio dopo Cristo) e portato avanti, tra gli altri, dai due filosofi a cui faremo riferimento per questo pezzo, ovvero Thomas Hobbes e John Locke. Non si parla più soltanto di leggi, di littera occidens per citare una massima di San Paolo, bensì di diritto, che si può definire qui lo Spiritus vivificans della legge, ovvero tutto quell’insieme di principi razionali e logici che danno forza e solidità argomentativa alla legge. La legge, insomma, non è più un qualcosa di imposto dall’alto, in modo verticale, da chi legifera o dalla divinità ma è un tentativo di dare forma a un insieme di principi razionalmente coglibili e giustificabili e che, quindi, conferiscono una ratio alla legge, ovvero ciò che rende giustizia dell’esistenza e della forma della legge, naturale o positiva che sia. Esattamente come per Antigone, quindi, anche per Hobbes e Locke il prius della legge positiva e, quindi, anche del diritto positivo che è la legge naturale non ha alcunché di divino e gli uomini ne dispongono in maniera innata e da sempre, esattamente come la facoltà di ragione. Ma andiamo più nel dettaglio. Thomas Hobbes in due delle sue più celebri opere, ovvero il Leviatano e il De Cive, cerca di spiegare il problema con una celebre finzione letteraria: lo stato di natura. Hobbes immagina una situazione in cui non vi sono leggi né istituzioni e gli esseri umani si trovano soli a lottare per accaparrarsi le risorse e garantire la propria sopravvivenza. Uno stato simile, chiaramente, non può essere mai esistito poiché avrebbe in breve tempo decretato l’estinzione della specie umana. Risulta, tuttavia, estremamente utile per comprendere cosa succede a un’umanità messa davanti alla sua estrema fragilità e precarietà: entra in gioco la ragione. Dinanzi alle più atroci brutalità e ingiustizie l’essere umano inizia a ponderare ciò che è vantaggioso e cosa non lo è, cosa è utile e cosa non lo è e, come conclusioni di sillogismi le cui premesse maggiori e minori non sono altro che le situazioni di vita che l’umano si trova a fronteggiare nello stato di natura, intuisce e coglie i diritti naturali. Ma cos’è un diritto naturale esattamente? Ci risponde direttamente Hobbes dicendo che è «la libertà, che ciascuno ha, di usare delle facoltà naturali secondo la retta ragione (corsivo mio). Così il fondamento ultimo del diritto naturale è che ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere» (T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, I 7, trad. it. a cura di T. Magri, p. 84, Editori Riuniti, Roma 2014), libertà qui intesa come non impedimento poiché non vi è alcun potere al di sopra che limiti certe azioni. La natura, di fatti, lascia tutto alla mercé dell’umanità, non interviene a limitare alcunché. Grazie all’intuizione logica dei diritti, seguendo la retta ragione, si arriva all’enunciazione delle leggi naturali, le quali non sono altro che buone norme comportamentali per evitare il conflitto costante che caratterizza lo stato di natura.
È proprio su questo punto che si consuma la frattura con l’altro filosofo oggetto della trattazione, cioè John Locke: mentre in Hobbes si rende necessario cedere i propri diritti naturali e sottomettersi alla legge positiva del potere sovrano in cambio della totale garanzia di avere salva la vita, ovvero il primo dei diritti di natura e l’unico che si conserva davvero all’uscita dallo stato di natura, in Locke, precisamente nel suo Secondo Trattato sul Governo, l’istituzione dello Stato si rende necessaria per garantire il godimento dei diritti naturali, nella loro totalità e in piena pace, attraverso un meccanismo di giustizia che sia terzo e super partes. Non è certamente l’unica differenza con Hobbes, poiché in Locke lo stato di natura è uno stato originariamente pacifico e che prevede il libero e pacifico godimento di risorse (concepite come illimitate) e della proprietà privata, che permetteva di vivere in relativa sicurezza godendo appieno dei propri diritti naturali. È interessante come Locke, all’inizio del suo ragionamento, condivida completamente i presupposti di quello di Hobbes riguardo l’intuizione dei diritti naturali grazie alla facoltà razionale, la successiva deduzione delle leggi di natura per conservare la pace e proseguire il godimento della proprietà, tuttavia al fondo della concordanza giacciono due concezioni antropologiche completamente differenti ed è questo che li fa divergere nella riflessione. Hobbes è fortemente pessimista ed è più propenso ad immaginare un essere umano predatore e in balìa dei più bassi istinti, che ha bisogno di un potere superiore che lo freni nel suo illimitato desiderio e che tenga le redini della sicurezza collettiva, al fine di garantirne la salute; Locke, invece, concepisce una umanità più pacifica, poco incline al conflitto e disposta a rinunciare ai propri desideri proprio per aver salva la vita. Se volessimo fare le pulci a Hobbes con il ragionamento lockeano, potremmo tranquillamente sostenere che proprio perché il conflitto risulta enormemente rischioso e svantaggioso, poiché pone gli individui nel costante rischio di perdere tutto, soprattutto la vita, l’umanità dovrebbe essere poco propensa a farsi guerra e propendere per un godimento pacifico dei frutti del proprio lavoro. Nella riflessione di Locke, infatti, emerge la necessità dello Stato perché nello stato di natura non è possibile escludere in alcun modo la possibilità di un folle che metta a repentaglio la pace e il godimento della proprietà. C’è, quindi, bisogno di una terza parte che dissuada gli altri individui dal fare follie e che si preoccupi di punire chi le compie in maniera giusta e proporzionale al danno (poiché gli individui danneggiati non potranno mai dirimere la questione in modo del tutto equo). La frattura, tuttavia, si ricompone proprio nel rapporto tra diritto naturale e diritto positivo: in entrambi i pensatori inglesi, senza il primo il secondo non ha senso, non ha ragione di esistere. Il secondo funziona se descrive il primo, se lo rende particulare nella comunità che va’ a definire, se lo approfondisce e lo completa. La legge positiva, allora, è la forma laddove il diritto è il contenuto. La legge serve a rendere noto, a garantire e a porre dei limiti a dei diritti che razionalmente nei principi fondamentali sono accessibili a chiunque grazie alla ragione.
Non è forse questo ciò che ha fatto Antigone dinanzi al cadavere martoriato e profanato del fratello Polinice? Applicare principi di retta ragione sul decreto irrazionale ma imposto da Creonte? Quest’ultimo, infatti, secondo il ragionamento fino a qui sostenuto non poteva aspettarsi che la sua legge fosse acriticamente accettata e passivamente subita dal suo popolo, poiché contraddiceva i più semplici e banali principi di razionalità, quegli stessi principi che costituiscono la ratio dietro la legge.
Alessio Di Marcoberardino; Antonio Albergo
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