Il film Matrix del 1999 ha indubbiamente segnato la storia del cinema. Anzi, ha segnato la storia della nostra cultura popolare. Fu un film a cavallo dei due millenni, ricco di un’estetica e di una sensibilità anni ’90 ma rivolto al futuro, al nuovo.
Fu un film capace di creare un immaginario, una visione d’insieme che ha fatto nascere addirittura il modo di dire “alla Matrix” per indicare qualcosa che abbia uno stile similare. La cosa più clamorosa è che il film “Matrix” non inventò nulla di veramente nuovo, ma seppe rielaborare in chiave assolutamente originale tutta una serie di stimoli e intuizioni già presenti in altre opere: rilanciò i combattimenti kung fu, rielaborò in chiave moderna il duello alla Sergio Leone, riprese l’estetica e le sonorità tipiche del cyberpunk, miscelò tra loro filosofia orientale, cristiana e il mito della caverna di Platone, il tutto alla luce delle più moderne intuizioni tecnologiche. Il risultato fu un capolavoro totale. Un film perfetto in ogni particolare, scenico e concettuale. Fu seguito da altri due film, meno fortunati nella riuscita complessiva, ma filosoficamente al livello del primo.
Oggi invece a 20 anni di distanza abbiamo un ulteriore sequel, Matrix Resurrections, il quarto capitolo della saga. E’ un film totalmente inaspettato, in quanto il cerchio narrativo si chiudeva perfettamente con il terzo film. Non a caso a partire dal primo annuncio fino all’ultimo trailer, gli appassionati si sono letteralmente scervellati a provare a capire ambientazioni e tematiche di un film che, semplicemente, non ci sarebbe dovuto essere.
Si è visto quali sono state le caratteristiche fondanti del “vecchio” Matrix: non inventare nulla ma rivoluzionare tutto. Prendere elementi già presenti nel cinema dell’epoca e dimostrare come tutto poteva essere raccontato diversamente. Il tutto veniva fatto senza mai “abbassarsi” al livello del pubblico. L’opera rimaneva complessa e con significati stratificati. Per certi versi il lavoro delle Wachowski è paragonabile ad un album di Battiato: non insegue il pubblico, ma richiede un serio sforzo da parte degli ascoltatori per essere compreso.
Era chiaro che questo quarto capitolo avrebbe cercato di ripetere il miracolo, ma per capire la direzione che prende occorre comprendere lo stato del cinema contemporaneo.
Da almeno una decina d’anni il cinema è bloccato in un duplice loop. Da un lato ci sono i “Cinecomics“, ossia i film tratti da fumetti, fondamentalmente di stampo supereroistico, che iniziano a sturare il mercato. Dall’altro una continua serie di Remake, Reboot, Spin-off, ossia di film legati a vecchie saghe che hanno fatto la storia del cinema.
Il minimo comun denominatore di entrambi questi loop è la mancanza di innovazione. I film supereroistici seguono sostanzialmente sempre lo stesso schema narrativo (salvo eccezioni quali “Deadpool” o “I guardiani della galassia parte 2“) divenendo uno la copia dell’altro.
Il continuo rilancio di vecchie saghe immobilizza la ricerca di nuovi contenuti, di nuove mitologie capaci di interpretare la realtà contemporanea (anche qui ci sono eccezioni, ad esempio il recentissimo “Dune” di Villenueve, che prova a lanciare una nuova saga altamente autoriale).
Il fondo di questa deriva cinematografica sembra essere stato toccato dall’ultimo Spiderman, “No way Home“, che salda perfettamente i due loop in un’unica pellicola: da un lato è l’ennesimo film supereroistico, dall’ altro rilancia al suo interno tutta una serie di personaggi di vecchi film di spiderman cari al pubblico. Il risultato è un film sì emozionante, ma totalmente illogico, a tratti infantile, che piega la trama e il filo logico alle ragioni del cuore e della spettacolarizzazione. Molte sono le cose senza senso che accadono, ma è bello che accadano. E questo ha portato ad un enorme successo di pubblico (e anche di critica con alcune eccezioni) che fa impallidire ogni altro film. Sono andati invece malissimo al botteghino i recenti film di Ridley Scott e di Spielberg, i quali provavano a raccontare storie nuove e autoriali, ma non per questo meno commerciali. Malino sono andati anche il già citato Dune (ma abbastanza bene da non cancellare gli attesi seguiti) e prima di lui Tenet di Christopher Nolan, che provavano ad innovare il panorama contemporaneo.
Il pubblico non vuole più tutto ciò. Il grande pubblico vuole Spiderman No Way Home: il vecchio, il solito, ma riproposto con una veste nuova e un minimo di credibilità alla base affinchè la trama regga.
In questo contesto esce Matrix Resurrections. Ed è, come il vecchio Matrix, un film geniale nel panorama attuale appena descritto.
La recensione che segue, pur non contenendo spoiler veri e propri (ossia rivelazioni afferenti agli sviluppi cardine della storia), si riserva di analizzare alcuni aspetti della trama, almeno della sua fase iniziale, pertanto chi non volesse acquisire alcun elemento della stessa è avvertito.
Come sappiamo la narrazione di Matrix si basa su un concetto fondamentale: che di realtà ce ne sono due. La prima è quella del Matrix appunto, una realtà illusoria e apparente, una simulazione della realtà, che appare come il mondo di fine millennio. E poi c’è la realtà vera, in cui il mondo è oscurato da un’antica guerra tra macchine e uomo, una guerra persa dall’uomo che ora sopravvive in dure condizioni di clandestinità.
Nella realtà apparente ritroviamo Neo, il nostro protagonista interpretato da Keanu Reeves, il quale ignora che quella in cui vive è una finta realtà. Eppure il personaggio conosce perfettamente la teoria della doppia realtà di cui sopra ma la crede un prodotto di fantasia (esattamente come noi spettatori) in quanto nella sua realtà (finta) la storia di Matrix è un prodotto d’intrattenimento noto e famoso (esattamente come per noi).
In questo contesto, il personaggio di Neo viene coinvolto, suo malgrado, nella realizzazione del quarto capitolo della saga Matrix: inizia così una profonda riflessione metacinematografica. Si può affermare che la prima parte del quarto film di Matrix è una gigantesca riflessione sulla necessità e modalità di realizzazione di un quarto film di Matrix. E tale riflessione tiene perfettamente conto dello stato del cinema attuale di cui sopra, facendosene beffe e, al contempo, raccontandolo come una gabbia micidiale alla libertà creativa, che impacchetta e commercializza qualsivoglia messaggio.
Il film poi evolve in modi che non voglio rivelare, ma finisce per smettere di essere metacinematografico e diviene effettivamente e concretamente il “quarto film di matrix“, cadendo apparentemente nei clichè che denunziava inizialmente.
A mio avviso la lente con cui tale film andrebbe letto è quella della “Merda d’artista“. Si tratta di una particolarissima Opera d’arte moderna realizzata da Piero Manzoni, il quale sigillò 90 barattoli di latta, ai quali applicò un’etichetta con la scritta «Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961». Il prezzo di ciascun barattolo, simili in tutto e per tutto a quelli della carne in scatola, era fissato in 300 grammi di oro zecchino, attraverso uno scambio diretto che non prevedeva la mediazione del denaro, e stabilendo un legame tra valore e oro affine a quello del sistema aureo. Con questa opera d’arte, da moltissimi considerata una mera provocazione, l’artista voleva nobilitare le proprie feci in un contesto artistico. Consapevole che il concetto di arte andava sfumando nella seconda metà del ‘900 ha inscatolato e offerto al pubblico l’impresentabile.
Lana Wachowski fa qualcosa di estremamente simile: nella prima parte del film denuncia l’attuale situazione dell’industria del cinema, e, nella seconda parte, apparentemente, vi si adegua, regalando al pubblico la propria “merda d’artista“. Realizza così un sequel ricco di tutti quegli elementi no-sense in cui il cinema odierno è incappato.
Possiamo concludere dicendo che questo film non aggiunge (ma nemmeno toglie) molto alla saga Matrix. Ma è un interessantissimo discorso sullo stato del cinema attuale. Nella sua stessa struttura porta evidenti contraddizioni che sono le contraddizioni del nostro tempo. Si può dire allora che ha, oggi, la stessa portata culturale-rivoluzionaria del primo film del 1999: non inventa nulla, ma rielabora l’esistente per mandare un messaggio. Un messaggio che denunzia una finta realtà nella quale siamo intrappolati: il cinema contamporaneo.
Probabilmente questo film sta al cinema del 2020 come la serie televisiva Boris stava alla televisione italiana degli anni 2000.
E ciò che più conta è che costa meno della vera “merda d’artista”. Guardatelo, e guardatelo in sala: al Cinema ci pensa Matrix, ai cinema pensiamoci noi.
Antonio Albergo
Classe ’94, diplomato al liceo classico di Pescara Gabriele D’Annunzio, Laureato in Giurisprudenza alla Luiss di Roma e ora praticante notaio. Appassionato di cinema e viaggi, si divide tra la gestione di PensieroDivergente e lo studio notarile.
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