Si è già parlato del decreto ristori, della crisi del settore enogastronomico e della necessità della sua trasformazione ed evoluzione. E’ però arrivato il momento di provare a capire cosa accade alla “filosofia” del bar, come punto di ritrovo e di aggregazione sociale. Seguiteci mentre proviamo a capirlo nella “divergente” riflessione domenicale.

Ho sempre reputato la colazione al bar un piccolo lusso irrinunciabile. Non tanto perchè la consistenza di un vero espresso è quasi inimitabile a casa, nè tanto per i cornetti caldi. Ma piuttosto per l’atmosfera del bar. Il bar è potenzialità. Uno può tranquillamente sedersi in un angolo a leggere il giornale o gli ultimi tweet sul proprio smartphone, oppure si può guardare intorno, curiosando sul variopinto spettacolo che la vita offre quotidianamente. E spesso e volentieri si può lasciar coinvolgere nelle discussioni più incredibili, che possono vederlo semplicemente spettatore di una partita a carte tra anziani o attore di conversazione kafkiane con l’avvocato che si reca ansioso in tribunale o con l’ingegnere edile preoccupato per la mancanza dei fondi, o con il benzinaio che ha sempre incredibili aneddoti da raccontare, o con il tassista che ha nervosismo da sfogare, per non parlare dei barbieri, vera e propria miniera di informazioni manco lavorassero al ministero dell’interno. Dopo dieci minuti di conversazione e cinque di colazione, si ha la sensazione di aver assorbito la rassegna stampa quotidiana di umanità, piana di tutte le sfumature normali e incredibili di sofferenza, gioia, banalità e unicità.

Non ho ancora capito se questo spettacolo mattutino è cessato o se si è addirittura ampliato, da quando i bar possono fare solo l’asporto. Infatti ora, una volta ritirato il cornetto e il caffè non ci si può più accomodare, ma occorre andar via. Pertanto ci si ritrova nel freddo mattino invernale, con entrambe la mani occupate, la mascherina ancora in viso, a domandarsi cosa fare. E a quel punto succede la magia. Si inizia ad indagare la strada, il marciapiede, gli atri dei palazzi, in chiave totalmente diversa dal solito, alla ricerca di un rifugio, di un anfratto che possa in qualche modo permettere lo svolgimento del rito mattutino, con una certa concentrazione e discrezione. Tornare a casa con le pietanze in mano è l’estrema ratio, significherebbe precludere ogni possibilità, ogni risvolto interessante all’inizio della giornata, chiudersi aprioristicamente alle potenzialità della vita.

Sebbene l’idea di fare colazione per strada, la mattina presto, soli e al freddo, può sembrare una follia (e inizialmente lo è sembrata anche a me), in realtà ha rivelato ben presto nuove forme di aggregazione sociale. Aggirarsi alla ricerca di un rifugio e trovare qualcuno con lo stesso sguardo indagatore con cappuccino e cornetto take away, può creare al primo sguardo forme incredibili di complicità, la stessa complicità che potrebbe instaurarsi tra due sopravvissuti ad un naufragio che si ritrovino su un’ isola deserta. Ora, dopo diverse settimane di zona rossa e arancione, iniziano a diventare ben noti tutti gli angoli strategici del quartiere dove improvvisare un punto ristoro, dei bar a cielo aperto, fuori dai bar, dove consumare la rassegna stampa sociale della giornata, accompagnando così la solitudine del caffè.

Già frequentando il liceo classico, avevo intuito che spesso c’era più saggezza nella conversazione a cuore aperto con un bidello (rectius: collaboratore scolastico) piuttosto che ascoltando la lezione di letteratura classica. Quell’umanità e quella sensibilità che la letteratura ha il compito di veicolare, spesso erano più presenti nelle storie di vita che quei collaboratori scolastici non aspettavano altro che raccontare, piuttosto che nelle fredde riflessioni di professori incapaci spesso di cogliere la sensibilità anche dei propri alunni. All’università ebbi la fortuna di estendere questo concetto alla dimensione sociale del bar, formulando così la teoria della rassegna stampa sociale, e di conseguenza autoimponendomela come doverosa per il resto delle colazioni della mia vita.

Chiaramente il discorso non vale per tutti i bar, (sarebbe come dire che un barbiere vale l’altro), occorre studiare il tipo, attraverso un’analisi fisiognomica, ossia attraverso quella pseudoscienza che tenta di descrivere carattere e moralità di una persona basandosi sull’aspetto fisico e sulle espressioni del volto, ma applicando il concetto all’architettura, all’atmosfera, e chiaramente alla bontà del caffè (possibilmente ristretto, 25 ml, scuro, denso e non zuccherato). Poi affinchè l’esperienza risulti ottimale è fondamentale la brevità, fattore essenziale in ogni rassegna stampa che si rispetti. Una sosta al bar non dovrebbe mai superare i 15 minuti, non solo nei giorni lavorativi ma anche nelle festività. Altrimenti si rischierebbe di rimanere intrappolati in analisi e riflessioni che dubito si svolgano in alcun centro studi o istituto di ricerca, e si rischierebbe di far andare in overbooking il cervello, finendo per non distinguere più ciò che è reale e ciò che non lo è. Se si sceglie il bar giusto, non esiste il politicamente corretto, tutto può essere messo e rimesso in discussione, raramente vi sono delle basi teologiche o filosofiche da cui partire.

Per esempio l’intera filosofia greca può essere rivissuta alla perfezione. Si può serenamente partire da Talete, cosa farebbe infatti un bar senza l’acqua? Caffè e cappuccini non esisterebbero…..effettivamente è abbastanza indubitabile che essa sia la base dell’essere e dell’esistenza del nostro bar. Anassimene però avrebbe da ridire, attenzionando l’aria come vero elemento portante della vita. E a ben vedere come dargli torto se si ripensa ai bar che ancora hanno la sala fumatori? Il piacere della compagnia acquista completamente un altro spessore mentre si fuma un sigaro o si assapora l’aroma del tabacco da pipa misto al sapore di caffè. E qui interviene Anassimandro, che dal suo tavolo d’angolo sbaraglia tutti affermando che l’unico vero elemento che racchiude il tutto altro non è che l’Apeiron, l’infinito, l’illimitato, che nel nostro bar/cosmos, altro non è che l’atmosfera, il risultato della combinazione di tutti i fattori (quartiere, location, pietanze, fumo, frequentazione). E quando la conversazione potrebbe sembrare terminata ecco entrare dalla porta sul retro Eraclito e Parmenide, allacciati in una discussione che mostra una nuova prospettiva tutta nuova. Per Parmenide in fin dei conti la realtà del bar è immutabile, nessun cambiamento avviene davvero, ogni discussione è fine a se stessa, non impatta sul mondo esterno e ogni apparente progresso non è che illusorio. Ma, risponde Eraclito, la verità è proprio il contrario, la vita sociale del bar è sempre in divenire, “non si entra mai due volte nello stesso bar” anche presentandovisi tutti i giorni nella stessa ora, il mutamento è continuo e inarrestabile, non si assiste mai alla stessa scena.

Si è provato a ripercorrere i primi passi della filosofia greca in una ipotetica chiacchierata al bancone, della durata di massimo quindici minuti; ma l’esperimento può riuscire, con le dovute semplificazioni, con quasi ogni branca del sapere, dall’economia alla politica, dalla cucina al complottismo, dalla medicina al cinema.

La vera domanda è: quando si tornerà a farlo? Gli esuli dei bar, con la propria colazione take away, se lo chiedono da soli e in compagnia, mentre si ritrovano agli angoli delle strade, sperduti e infreddoliti, come le scimmie all’inizio di “2001 odissea nello spazio“, attendendo la zona gialla come nuovo salvifico monolite nero. Perchè il bar non è solo un buon cappuccino, (sul quale si può filosofeggiare sul giusto punto d’incontro tra caffè, latte e schiuma), non è nemmeno la fragranza del cornetto appena sfornato, ma è molto di più. E’ un momento di scambio culturale senza passato e senza futuro, in cui non contano i legami, non contano i rapporti, ma conta solo l’istante, conta il presente. E’ l’unico posto in cui forse si riesce a godere l’attimo, cogliendolo, allo stesso modo in cui si beve un espresso ristretto, scambiandosi opinioni e confidenze nell’impunità dell’assenza di legami strutturati e profondi. Ed è incredibile come a bar chiusi quest’esigenza si riversi agli angoli delle strade, donando ad esse una vita prima insospettabile, nonostante il freddo e nonostante l’inverno.

Ad ogni modo torneremo presto a riempire i bar. Che di filosofi greci ce ne sono ancora molti da analizzare.

Comments to: Apologia del Bar

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Attach images - Only PNG, JPG, JPEG and GIF are supported.

Login

Welcome to Typer

Brief and amiable onboarding is the first thing a new user sees in the theme.
Join Typer
Registration is closed.