La storia che non ci raccontano
Tra i banchi di scuola studiamo vari tipi di schiavitù praticate nella storia, dagli egizi ai romani, dall’antica grecia al medioevo, ma uno degli sfruttamenti più conosciuti per il suo peso storico e la sua durata, è la tratta degli schiavi africani. Una volta comprati o catturati, gli schiavi attraversavano l’oceano atlantico verso il continente americano per svolgere lavori nei campi . Esseri umani comprati e venduti. Ma comprati da chi? In una video lezione, Anthony Hazard, professore associato al programma di studi etnici presso l’Università di Santa Clara, approfondisce il tema chiarendo l’origine della situazione attuale nel continente.
La schiavitù africana, spiega il professore, è esistita per secoli e in varie forme;in alcune società gli schiavi potevano far parte della famiglia di un padrone, possedere terreni e perfino ascendere a posizioni di potere. Ma quando i capitani bianchi vennero offrendo beni industriali, armi, e rum per gli schiavi, i re africani e i mercanti ebbero pochi motivi per esitare. Vendendoli, i re arricchirono i propri regni e li potenziarono contro i loro nemici confinanti. Nel 1849 Re Gezo di Dahomey disse: 《La tratta è il principio che guida il mio popolo. È la fonte della nostra gloria e della nostra ricchezza. Una madre non può far altro che cantare la ninna nanna al proprio bambino sulle note del trionfo dei nemici vinti e ridotti a schiavi.》.
La schiavitù rimpiazzò altre condanne penali, e catturare schiavi diventò una causa di guerra, piuttosto che il risultato, e per difendersi dalle insurrezioni degli schiavi, i regni confinanti ebbero bisogno di armi da fuoco europee, che comprarono anche con gli schiavi. Quando però l’asservimento fu vietato nelle Americhe e in Europa, i regni africani, la cui economia era arrivata a dominare, collassarono, lasciandoli esposti a conquista e colonizzazione. La tratta atlantica degli schiavi contribuì allo sviluppo dell’ideologia razzista. Molta della schiavitù africana non ebbe ragioni più profonde della punizione legale o della guerra intertribale, ma gli europei che predicavano una religione universale, e che vietavano di asservire compagni cristiani, ebbero bisogno di una giustificazione per una pratica così ovviamente in contrasto con i loro ideali di uguaglianza. Così affermarono che gli africani erano biologicamente inferiori e destinati ad essere schiavi, facendo grandi sforzi per giustificare questa teoria.
Quando parliamo di razzismo e schiavitù nella stessa frase, rivolgiamo il nostro sguardo inconsciamente verso gli Stati Uniti d’America, ricordandoci delle 13 colonie e della disputa sullo schiavismo che portò alla guerra di secessione. Tuttavia in pochi sanno che la prima persona a divenire legalmente proprietario di uno schiavo nero nelle nuove americhe fu Anthony Johnson, un ex schiavo nero delle terre del Virginia. Dopo essere stato riconosciuto come “negro libero”, diventò un agricoltore di successo grazie anche ai suoi cinque servitori, quattro bianchi e uno nero. Nel 1663 John Casor, lo schiavo nero, sosteneva che la sua indentura, vincolo che faceva di un uomo libero uno schiavo, fosse scaduta da ben sette anni ma che fosse stato comunque trattenuto illegalmente. Un vicino, Robert Parker, intervenne e persuase Anthony Johnson per liberare Casor, che poco dopo accettò di lavorare per il suo redentore. Johnson fece causa a Parker nel tribunale di Northampton nel 1654 per il ritorno di Casor nelle sue piantagioni. La corte inizialmente a favore di Parker, invertì la sua sentenza in appello nel 1655 scoprendo che Anthony Johnson in realtà possedeva ancora John Casor, così il tribunale ordinò che fosse restituito con le spese processuali pagate da Robert Parker. Fu il primo caso di una decisione giudiziaria nelle Tredici Colonie secondo cui una persona che non aveva commesso alcun crimine poteva essere tenuta in schiavitù per tutta la vita. Queste vicende cambiarono per sempre le sorti degli afroamericani liberi e dei neri di tutto il mondo accecati dalla rabbia e perseguiti dal passato, frustrati delle ideologie e dai soprusi perpetrati dall’uomo bianco, non considerando che parte dei problemi che ancora stiamo affrontando sono stati creati da noi neri.
La trappola mentale
Bob Marley cantava “Emancipatevi dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente” sulle note di Redemption Songs, uno tra i brani più famosi del cantautore giamaicano. Molti artisti neri non si limitano solamente a scrivere canzoni, ma attraverso discorsi tenuti durante i loro concerti o interviste rilasciate, manifestano il loro interesse per la causa, facendosi sentire a volte anche al di fuori del coro, come è accaduto per il noto rapper afroamericano Kanye West che due anni fa in un’intervista a tmz, ha definito la schiavitù una scelta. Sono rimasti tutti esterrefatti dalle sue parole captando solo il senso letterale della frase, senza interpretare il concetto dietro il suo discorso. I neri non erano felici di essere schiavi, lavorare nelle piantagioni ed essere violentati, ciò che l’artista intendeva è che arrivati ad un certo punto l’essere schiavo era diventata una questione psicologica, dal corpo fino ad arrivare alla mente. Il pensiero di non sapere cosa fare una volta ottenuta la libertà, la paura di non trovare un altro lavoro ed essere violentati, li rinchiudeva dentro una trappola mentale credendo che l’unico modo per sopravvivere fosse rimanere schiavi, perché al di fuori delle piantagioni non avrebbero fatto di meglio, passando dall’essere schiavizzati a voler rimanere tali. Col senno di poi è semplice parlare a cose fatte pensando a come sarebbero potute andare le cose, ma a distanza di secoli ci rendiamo conto che la mentalità della maggior parte dei neri non è cambiata. Traslando la linea temporale, ci accorgiamo che la stessa trappola mentale porta a pensare oggi a un nero
di non piacere per il suo colore della pelle, che non ha trovato lavoro perché tale, che è difficile avere successo nella vita, perché? Perché nero. Il pensiero che si è infiltrato nelle coscienze ha portato a ritenersi realmente inferiori, sentendosi presi in causa per qualsiasi motivo, ogni tanto anche futile (quello che io definisco vittimismo negro). Èpiùsemplice incolpare gli altri per i propri fallimenti che se stessi, e giocandosi la carta del razzismo si evita di sentirsi in colpa, senza dover giustificare i propri comportamenti, perché il vero problema dei neri, sono i neri stessi. L’aria di indifferenza verso la vita, e la mancata voglia di riscattarsi, fa si che si accontenti delle cose effimere, arrivando a fare lavori umili e poco motivanti, scegliendo cose pronte e facili. Tutto è condizionato dalla società in cui viviamo ma soprattutto della bassa considerazione che il popolo Africano ha di sé.
Chiamiamo le cose con il loro nome
Noi neri veniamo educati con la consapevolezza che la nostra diversità (il nostro colore della pelle) prima o poi sarà oggetto di discussioni e prese in giro. Fin da piccoli si impara ad essere sensibili verso questo argomento, sia per il passato storico che si studia nelle scuole, sia per l’educazione impartita tra le mura domestiche, ed è proprio questo il nostro sbaglio. Il razzismo è figlio dell’ignoranza di chi offende ma anche del complesso di inferiorità della parte offesa. Se le persone non si sentissero prese in causa, il problema non si porrebbe, perché è un dato di fatto che siamo negri, ma quale sarebbe l’offesa? Lo sporco prima, o il di merda dopo? Per secoli è passato il messaggio sbagliato, come se questa caratteristica fosse il nostro punto debole dando modo e libertà ad altri “non negri” di offendere, quando per noi dovrebbe essere motivo di orgoglio.
Dovremmo sentirci in difetto se non raggiungessimo un obiettivo, sentirci offesi se ci attaccassero a livello personale, non se abbiamo un colore diverso.
Ultimamente si è parlato molto nella campagna fatta da influencer, ballerini e cantanti neri per eliminare la
n-word dal vocabolario di tutti i giorni, ma francamente trovo più offensivo l’aggettivo di colore, quasi a sottintendere che ne esista uno classico e uno “diversamente normale”, semplicemente di colore, ma noi abbiamo un colore: il nero. Quello che è rimasto nel passato rimane nel passato, oggi dobbiamo cambiare pagina prendendo coscienza e facendo dell’offesa un elemento di appartenenza per cui andarne fieri.
L’italia è un paese razzista
Tra le proteste scatenate in queste settimane e le manifestazioni di tutto il mondo dopo la morte di George Flyod, in Italia si è discusso del fatto se varrebbe la pena affrontare un argomento simile dato il diverso passato storico, affermando che “qui il razzismo non è come in America” . Inutile smentire, ma anche inutile negare che, nella nostra penisola, abuso di potere e razzismo non esistano e/o coesistano.
Secondo l’ENAR (Rete europea contro il razzismo) fra il 2014 e il 2017 i crimini a sfondo razzista in Italia sono raddoppiati, passando da 413 a 828, senza contare le numerose violenze non denunciate per paura che questo potesse avere ripercussioni sul loro status legale. L’istituto denuncia anche “l’esistenza di forme sottili di razzismo all’interno del sistema di giustizia penale europeo” per cui “un numero significativo di crimini motivati dall’odio finiscono per non essere giudicati come tali”. Ma basti pensare all’enorme numero di ragazzi di seconda generazione nati e cresciuti in Italia per capire che la burocrazia non è dalla nostra parte, e se è vero che la legge rispecchia la volontà del popolo, negare la possibilità di essere riconosciuti come parte integrante di un paese a tutti gli effetti fino al compimento dei 18 anni, è un chiaro segno di non accettazione. Senza contare i continui sfruttamenti della forza lavoro nei campi ed occupazioni malpagate. Ma non c’è bisogno di allargare gli orizzonti per scoprire che il fenomeno è presente in penombra anche tra gli stessi italiani.
Cambierà qualcosa
È vero, la legge non è a nostro favore ma la parola chiave è unione. Le cose cambiano quando è il momento di cambiare, ma solo con l’unione di tutti quanti messi insieme vedremo quel momento arrivare prima. Dalle foto pubblicate sulle testate giornalistiche e vari social, si notava una scarsa partecipazione alle proteste da parte della comunità afroitaliana, che sarebbero dovuti essere in prima linea a portare la propria testimonianza. Rispetto agli altri paesi europei, la comunità afro per tematiche di questo genere, per cui vale la pena essere uniti, non si fa sentire, o meglio è poco presente. Siamo tutti fratelli quando bisogna andare a una festa, ma la verità è che a nessuno importa dell’altro e se lasciamo combattere le nostre battaglie agli altri non ci evolveremo mai e rimarremo per sempre incatenati nella nostra trappola mentale.
Articolo di Janice Lima Ramalho, 20 anni. Studentessa di giurisprudenza presso Alma Mater Bologna.
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