Mia madre una volta mi disse che la mia stanza era la più bella della casa, perché dalla finestra si poteva scorgere la vista della lontana montagna. Siamo a Pescara, a 500 metri dalla riviera adriatica, e dal terzo piano del mio appartamento si può effettivamente vedere un angolo della Maiella, che si trova indicativamente a 70 km dal centro di Pescara, almeno secondo la stima di Google Maps. Non ci avevo mai fatto caso fino a quel momento. Anche dopo il commento di mia madre, provai ad aguzzare la vista e scorsi, con estrema difficoltà un angolino lontano di bianco, incastonato scomodamente tra le fronde dell’albero del giardino a destra e il tetto spiovente del palazzo di fronte a sinistra. Lasciai subito perdere e continuai a considerare la stanza migliore della casa la sala, con il suo angolo lettura, la TV con annessa videoteca e l’antico giradischi di famiglia. Fu in questa sala che, armato con vestaglia da casa, iniziai la quarantena, quasi felice di avere tre settimane da dedicare ad un inaspettato otium latino: avevo la filmografia di Zeffirelli e Bertolucci quasi integralmente da recuperare, la discografia degli Emerson Lake e Palmer da ristudiare e un bel mattone di riviste giuridiche da schematizzare. Genziana e toscanelli a portata di mano. Quasi me la sono goduta. Mi dedicavo alle mie passioni e la sera assistevo costernato, ma protetto, alle macabre conferenze stampa delle 18 in cui, come in un film, sfilavano conteggi di morti, intubati e contagiati, con annesse foto di bare impersonali e intoccabili. Mi sentivo in piena emergenza, ma al contempo protetto dalle mura domestiche, dolce prigione confortante. Gli amici erano a portata di click, la modernità sostituiva gentilmente il mondo esterno, violento e pericoloso. E il tempo è passato, scandito non più dai rintocchi dei campanili delle chiese, ma dalle dirette del Premier, novello messia e redentore della nostra Italia “in guerra”. Anche solo ascoltarlo mi sembrava una partecipazione alla lotta, un grande contributo reso ancora più eroico dall’isolamento a cui volentieri mi prestavo. In tal modo ho festeggiato la Pasqua, sorridendo dei runner inseguiti dai gendarmi sulla spiaggia e dei sacerdoti clandestini che celebravano messa come se fossero novelli martiri chiusi nelle catacombe. Ho festeggiato la Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo, sentendomi quasi come Celentano quando canta “Azzurro”, cercando un po’ d’Africa in giardino tra l’oleandro e il Baobab.

E lentamente, quasi senza accorgermene mi sono ritrovato a passare più tempo in camera mia davanti alla finestra che in sala. Godere dell’arte, delle mie passioni a tratti mi è iniziato a sembrare inutile, quasi improduttivo. Anche lo studio iniziava a diventare lentamente meno importante, come se potessi solo apprendere ma non applicare in una società svuotata sostanzialmente di diritti e di persone. E quella finestra finiva per attirare sempre più il mio sguardo. Mi accorsi che non era così piccola e lontana la montagna. Lo scorcio in realtà era più ricco di quanto potessi immaginare prima. Ruotando leggermente la testa si potevano cogliere sfumature diverse, bagliori diversi a seconda della luce. Dopo la quarta settimana iniziai a bruciare la sveglia. Tanto che importanza aveva? Senza socialità, se mi sveglio a mezzogiorno e mi dedico alle mie faccende fino alle quattro di notte, cosa cambia?

Ho iniziato a risvegliarmi presto solo quando ho capito che per destarmi dal letto non avevo bisogno di più sveglie, o di una radio sveglia tattica, ma di risentirmi vivo. Da qualche giorno appena suona la sveglia, mi alzo, mi affaccio subito alla finestra e guardo la montagna. La vedo e sento il richiamo alla bellezza, sento il piacere di vedere la natura viva, pulsante e libera e trovo la forza di alzarmi solo così. Vivere, studiare, tutto ciò ha senso solo perché c’è un mondo da vivere, per cui vale la pena rischiare. Il mondo è uno spazio pericoloso, non esiste il rischio zero. Chi vive muore. Chi muore non rischia più nulla ma smette di essere vivo. Un leone in gabbia allo zoo vive un rischio zero. Mangia tutti i giorni cibi selezionati precisamente per la sua salute. Ha spazi calcolati esattamente per non frustrare troppo la sua curiosità e il suo istinto. Anche le sue pulsioni riproduttive sono canalizzate e orientate nel modo più produttivo. Non può accadergli nulla di male, non soffrirà la fame, nè sarà aggredito dai suoi simili. Vivrà a lungo e in sicurezza. Certo non possiamo sapere cosa pensi il leone in gabbia. Ma possiamo osservarne lo sguardo e i movimenti. Cerca un senso del vivere che non trova più. Nella sua sicurezza è già morto.

Quanti uomini nella storia hanno versato il sangue per la libertà e sono morti? Quanti sono stati i martiri cristiani nei primi secoli che hanno dato la vita per poter celebrare liberamente il loro culto? Sono tutte persone che hanno sacrificato la sicurezza per la libertà. Probabilmente se avessero ceduto, avrebbero vissuto di più, con comodi compromessi con il potere e le circostanze naturali che li affliggevano. Comodi e sicuri, come il leone. Ma non l’hanno fatto, e la civiltà occidentale li ha celebrati a lungo come eroi per questo.

E oggi invece cosa accade? Siamo invitati, anzi obbligati a fare il contrario: dimenticare libertà e accettare sicurezza. Se non lo si fa, si è egoisti, sciocchi, irresponsabili, pericolosi addirittura.

Così oggi nel ventunesimo secolo rinunciamo alle nostre libertà, inconsapevoli, accontentandoci della calda sicurezza di una cella, e di un vuoto rispetto formalistico delle garanzie costituzionali acquistate con il sangue di uomini, che per i canoni di oggi sarebbero probabilmente definiti antisociali.

Eppure in cuor mio penso che ogni scintilla di libertà è partita da qualcuno che solo, mirava in un angolo della finestra uno scorcio d’infinito, un’idea di bellezza, un’idea di vita.

Riguardo la montagna. Ora dopo 8 settimane mi sembra bellissima. Uno scorcio meraviglioso, incantevole e mutevole. Mi accorgo della saggezza di mia madre. E’ una visione per cui vale la pena vivere e rischiare la propria sicurezza.

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