Perché la storia ci impone di inventare qualcosa di nuovo per evitare l’ “apocalisse”: quattro parole sulla teoria della “Quarta dimensione”…

Raccontando il “dopo” de “L’alba di sangue” racconto spesso la necessità di studiare la storia con oggettività affinché il passato possa aiutarci a capire i dettagli della decadenza che abbiamo iniziato ad affrontare.

Nello specifico, quando al termine di una presentazione che non dimenticherò mai, sabato 18 giugno ho risposto ad una domanda di attualità evocando a gran voce una “terza via”, ho tentato di chiarire la convinzione per cui non possa esistere futuro senza novità.

Nonostante la chiarezza dei miei intenti, ho ripensato tuttavia al concetto di “terza via” con attenzione nelle ore successive e non ho potuto fare a meno di notare un potenziale equivoco tra la mia “terza via” e quella di Bill Clinton e Tony Blair.

Onde evitare, quindi, contraddizioni inopportune chiariamo immediatamente una cosa: la “terza via” che ho incautamente presentato non ha (quasi) nulla a che vedere con la “Terza via” della sinistra.

Affinché sia tuttavia chiara la definizione di “terza via”, è doveroso servirsi (non a caso) di un’analisi storica e di un riferimento scientifico a mio avviso non scontato.

Procediamo dunque con ordine e procediamo in direzione della Novità facendo un passo indietro verso il 1918, anno di pubblicazione del libro “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler.

Ne “Il tramonto dell’Occidente”, Oswald Spengler compie un’analisi comparativa di tutte le grandi civiltà.

Per l’autore, le caratteristiche delle civiltà consistono nell’essere ognuna un organismo in sé compiuto che, analogamente all’organismo umano, possiede le sue quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Come tutte le altre civiltà analizzate nel corso dell’opera, anche la civiltà occidentale è destinata all’estinzione e secondo l’autore, essa ha iniziato a estinguersi proprio nel XIX secolo quando ha avuto inizio la Zivilisation (“civilizzazione”), ossia quella fase storica in cui si è cominciato a mantenere in vita modelli culturali già morti.

Tale ultima fase della civiltà occidentale viene descritta da Oswald Spengler, (negli anni Venti del Ventesimo secolo), come una fase intellettualmente arida e politicamente fragile, la quale resiste alla sua stessa fine solo grazie al cambiamento continuo dei modelli di riferimento e al predominio incontrastato del denaro e della stampa.

Inutile ripetere che l’opera di Oswald Spengler abbia fatto discutere molto nei decenni successivi, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale quando il tramonto dell’Occidente parve ai più un lamento di Cassandra…

Nonostante però la vittoria delle forze alleate durante l’ultimo conflitto mondiale, i caratteri generali dell’opera appena menzionata hanno a lungo perseguitato i critici poiché non a caso, ogni crisi dell’Occidente sembra non essere mai stata una crisi separata, ma un segnale da inserire in un quadro più ampio.

In altre parole, qualora dovessimo prendere sul serio Oswald Spengler, dovremmo osservare la crisi petrolifera degli anni ’70, la guerra in Vietnam, la bolla del Dot-com, l’11 settembre, la crisi dei mutui sub-prime, la crisi del debito in Europa e l’ascesa dei BRICS non come fenomeni unici, ma fenomeni da valutare con cognizione di causa nel loro insieme.

Ma possiamo davvero condividere le opinioni di chi scrisse “Il tramonto dell’Occidente”? Oswald Spengler ha commesso un errore? Sebbene sia difficile riconoscerlo, non possiamo fare però a meno della convinzione per cui l’Occidente sia dominato dal denaro e dalla stampa non ha commesso un errore.

A prescindere tuttavia dalle ragioni di carattere morale e dalle conseguenze di un dominio (eccessivo) dell’economia e dei mezzi di informazione, l’Occidente non solo dimostra con crescente rapidità i sintomi del declino ma si ritrova a dover gestire, nel momento in cui scrivo, un fatto che avevamo già previsto: il mondo multipolare.

Quando è caduto il Muro di Berlino nel 1989 e l’Unione Sovietica si è disgregata per alcuni anni è stato possibile illudersi che gli Stati Uniti d’America sarebbero stati l’unica grande potenza mondiale; ma, l’11 settembre 2001, la frantumazione del Medioriente e la crescita delle disuguaglianze economiche hanno ampiamente confermato l’ipotesi di Samuel P. Huntington per cui il mondo, prima o poi, avrebbe conosciuto il “multipolarismo”.

A un Occidente incapace di fare tesoro del proprio indiscusso trionfo, si sono contrapposti infatti paesi emergenti come Cina e India che da “fabbriche del mondo” sono assurte al rango di “potenze”.

Di fronte ad esse, “autoflagellarci” con l’ideologia della “cancel culture” è deleterio poiché non può che accrescere all’esterno la convinzione di aver imboccato definitivamente la via del tramonto.

Allo stesso modo, di fronte alle nuove potenze emergenti, non ha alcun senso perseverare con eccessi e contraddizioni, poiché se non riusciremo a valorizzare ciò che ci ha resi unici, Oswald Spengler avrà avuto indiscutibilmente ragione.

L’Occidente non è stato unico perché ha costruito delle fortune sullo schiavismo (pratica diffusa anche presso civiltà diverse), no: l’Occidente è stato unico perché ha saputo distinguersi per idee o valori che spesso e volentieri, gli ex “paesi emergenti” ci hanno copiato (si pensi, giusto per fare un esempio, agli istituti di diritto di matrice romanista).

Nel condannare l’eccesso che spesso ci vede prendere, appunto, posizioni eccessive ed estremiste, mi ritrovo nella condizione di denunciare un evidente “campanello d’allarme” poiché quando una civiltà comincia a colare a picco, gli eccessi sono praticamente quotidiani.

Un esempio: in seguito all’intervento russo in Ucraina, si è acceso spesso un dibattito aspro che ha condannato aprioristicamente chi, pur condannando la decisione del Cremlino, si è interrogato sulle responsabilità dell’Occidente quando non ha preso esempio da Henry Kissinger e non ha “spaccato” anzi tempo l’asse sino-russo.

Domandarsi se vi siano state mancanze da parte delle potenze occidentali nel rapporto con la Russia post-sovietica non credo significhi essere filo-putiniani, allo stesso modo non credo significhi essere filo-putiniani interrogarsi sul ruolo della NATO oggi e sul rapporto dell’Unione europea con gli Stati Uniti d’America; tuttavia, interrogarsi pare essere divenuto estremamente pericoloso e nonostante ogni tentativo di prendere le distanze da Vladimir Putin, rischiare una “shitstorm” è divenuto semplice come bere un bicchiere d’acqua.

Cosa può esserci, perciò, di più eccessivo di questo?

Come Occidente abbiamo costruito gran parte della nostra fortuna intorno alla ragione (fin dai tempi di Socrate), per cui tornare ad essere ragionevoli può essere un ottimo punto di (ri)partenza (soprattutto perché essere ragionevoli non significa essere autolesionisti) …

In ogni caso, per rispondere con fiducia alle sfide del mondo “multipolare”, pensare una “terza via” è essenziale.

Ma nello specifico, cosa significa, in conclusione, “terza via”?

Significa novità. Punto.

Ogni vano tentativo che osiamo per andare avanti sembra spesso e volentieri confermare Oswald Spengler quando scriveva che manteniamo in vita modelli culturali già morti e in effetti, a pensarci bene, ogni volta che buttiamo via una cosa senza un’adeguata analisi dei “come” e dei “perché” diciamo comunque “no” all’eutanasia senza accorgercene.

Un altro esempio: nel dibattito post(post) non si sa cosa sul rapporto tra individuo e gruppo, prediligiamo troppo frequentemente il gruppo a scapito dell’individuo perché l’individualismo edonista degli ultimi trent’anni ci ha (giustamente) sfiancato. Nel rinunciare però ai valori dell’individuo, rinunciamo spesso, tuttavia, ai valori che ci hanno portato dove siamo e rischiamo, in buona sostanza, di consegnare gli individui a dei gruppi senza che essi ne siano consapevoli.

In nome della collettività, se non troveremo la “terza via” l’individuo sarà pertanto costretto a sacrificarsi e con esso tutto quel bagaglio di esperienze che l’individuo potrebbe portare in dono alla massa.

Ciò che sarebbe opportuno proporre (ed è qui che la “terza via” vince) è una riflessione che riconosce all’individuo il diritto a un’educazione tale per cui all’interno della collettività può esprimersi, autodeterminarsi e perché no, se necessario, distinguersi.

Dimenticando cosa sia la moderazione, abbiamo dimenticato tutto e, di conseguenza, ci siamo consegnati alla fanciullesca soluzione dell’“aut aut”.

Dagli ultimi trent’anni abbiamo tanto da imparare ma fino a quando continueremo a illuderci, ingenuamente, che basti buttare via tutto per ricominciare, non ricominceremo un bel niente.

Non a caso, le vite stesse dei singoli (privati di un’autentica educazione e di un sistema scolastico realmente meritocratico) si riducono purtroppo all’ “aut aut” e ciò, ribadirlo è superfluo, è a dir poco pericoloso.

La “terza via”, in ogni caso, non ha nulla a che vedere nemmeno con il “terzo polo” poiché la “terza via” si discosta addirittura dai partiti per come esistono e si propone di costruire una nuova forma di vita politica che mette al centro le comunità di quartiere, i gruppi autogestiti, le scuole parentali…

In concreto, la “terza via” è un dovere non solo di politici e intellettuali ma di tutti coloro che credono nel confronto democratico: essa abbraccia ogni aspetto della vita di tutti i giorni e parte del presupposto per cui si può rompere lo schema solo conoscendo (e accettando) la propria storia.

Per evitare il fraintendimento da cui ha avuto inizio la mia riflessione, giunge in mio soccorso la fisica, e nello specifico, la teoria della relatività di Albert Einstein.

Ciò che abbiamo definito “terza via” potrebbe quindi essere definita quarta dimensione, poiché secondo la teoria della relatività, la quarta dimensione supera le tre dimensioni percepibili (lunghezza, larghezza e profondità) e introduce la dimensione dello spazio-tempo.

Nella dimensione dello spazio-tempo, la teoria di Albert Einstein trova fondamento ma per comprendere ciò che il brillante fisico tedesco teorizzò occorre una capacità di astrazione non indifferente (la stessa che serve per superare e rompere coraggiosamente schemi che ci trasciniamo dietro con evidente difficoltà) …

Eccoci in definitiva al nocciolo del problema: affinché l’essere umano possa “saltare” nella “quarta dimensione”, occorre che l’essere umano in primis e solo l’essere umano compia uno sforzo razionale nuovo.

Nulla di ciò di cui stiamo discutendo, attualmente, riguarda la tecnica poiché, come già ampiamente discusso in altre occasioni la tecnica è sì uno strumento straordinario ma se l’essere umano non è in grado di seguirne il passo per primo, essa rischierà di unirsi alla schiera di armi con le quali l’Occidente, per primo, inizierà a suicidarsi.

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